Per l’arte visiva la globalizzazione 
                      è iniziata da quando , in un “regime di consumo” 
                      dell’arte, che parte da Duchamp e si struttura definitivamente 
                      con la Pop Art, si è concretizzato anche un “regime 
                      di comunicazione” sempre più totalizzante dove 
                      "l'artista non è un elemento a parte, separato 
                      dal sistema globale: non c'è autore, non c'è 
                      spettatore, solo una catena di 'comunicazione' che si chiude 
                      su se stessa" (Anne Cauquelin, "L'arte contemporanea", 
                      1992).  
                      Se da una parte la globalizzazione assicura un confronto 
                      senza confini in un mercato internazionale di libera circolazione 
                      delle immagini dove, almeno in teoria, chi più vale 
                      più viene conosciuto e premiato, d’altra parte 
                      finisce per dissipare ogni discorso individuale in uno spazio 
                      sostanzialmente anonimo.  
                      Si può oggi affermare che non esiste un’arte 
                      contemporanea, quanto piuttosto che esistono tante singole 
                      opere contemporanee di artisti più o meno validi 
                      senza un patrimonio comune di idee e culture, cosa mai verificatasi 
                      in precedenza.  
                       
                      Sembrerebbe che ciò non possa che andare a beneficio 
                      della più assoluta libertà di espressione, 
                      nel rispetto del più estremo individualismo, se non 
                      fosse che il tutto avviene all’interno di un ferreo 
                      sistema di connessione degli interessi economici di gallerie, 
                      musei, grandi collezionisti, critici, che parte da quando, 
                      passata la Grande Depressione dell’America degli anni 
                      ’30, esplode da New York, nuova capitale artistica 
                      mondiale e nuova ‘casa’ fornita da Peggy Guggenheim 
                      agli artisti in fuga dall’Europa nazista, un boom 
                      economico che coinvolge anche il mondo dell’arte e 
                      dà luogo a quello che Lawrence Alloway, nel 1972, 
                      definisce per primo come ‘sistema dell’arte’. 
                       
                      Ovviamente, la globalizzazione ha fortemente favorito questo 
                      sistema, dato che si tratta di due evenienze che vanno nella 
                      stessa direzione e condividono le stesse intenzionalità. 
                       
                      Ancora oggi uno dei nomi che detengono le chiavi del potere 
                      nel mondo dell’arte è Guggenheim, marchio di 
                      una diffusa rete di musei in molte parti del mondo, da New 
                      York a Bilbao a Venezia a Berlino (dove è in joint-venture nientemeno che con Deutsche Bank), sinonimo di una vera 
                      e propria multinazionale dell’arte.  
                      Non sono un segreto 
                      le trattative finanziarie precedenti alla realizzazione 
                      del Guggenheim di Bilbao, il gioco delle poltrone dei posti 
                      chiave, l’incarico del progetto all'archistar Frank  Gehry in 
                      grado di garantire ‘a prescindere’ la risonanza 
                      dell’iniziativa.  
                      Questa organizzazione internazionale 
                      gestisce attraverso le sue sedi praticamente la totalità 
                      delle opere del ‘900, dal Surrealismo 
                      al Cubismo, 
                      all'Astrattismo 
                      alla Pop Art 
                      e gestisce anche un bilancio da capogiro per ciò 
                      che riguarda l’indotto, vendita di cataloghi, di riproduzioni, 
                      gadget firmati, shop museum, guggenheim store, café 
                      museum ecc.  
                      L’arte si inserisce così in un processo a largo 
                      raggio definito per antonomasia ‘americanizzazione’, 
                      intesa come "propagazione di idee, usanze, modelli 
                      sociali, industria e capitale americani nel mondo" 
                      (George Ritzer - "Il mondo alla McDonald's", 1997) assecondato 
                      da una parallela globalizzazione della comunicazione che 
                      ha come esito la trasmissione di informazioni in eccesso, 
                      semplificate nei contenuti, per una conoscenza superficiale, 
                      ma vastissima. 
                      McDonaldizzazione è termine divenuto sinonimo di 
                      globalizzazione, poiché entrambi designano un collaudato 
                      modello funzionale di successo planetario, una struttura 
                      controllata, efficiente, prevedibile, completamente asservita 
                      alla logica di mercato, sovrapponibile a tutti i fenomeni 
                      sociali e culturali, dall'alimentazione al lavoro, al tempo 
                      libero, alla politica, alla famiglia, e, perché no?, 
                      all’arte. 
                      Coincidenza curiosa ed entro certi limiti divertente il 
                      fatto che il supermanager Mario Resca, attualmente consigliere del ministro 
                      dei Beni Culturali Sandro Bondi, fosse l’ex presidente 
                      di McDonald’s Italia! 
                     Non solo il modello espositivo, il layout museale, l’organizzazione 
                      dell’indotto si ripetono invariati passando da una 
                      città all’altra, da una nazione all’altra, 
                      da un continente all’altro, ma sempre più spesso 
                      è la stessa mostra a trasferirsi in toto, 
                      nel nome di una sorta di universalismo culturale che vuol 
                      offrire omogeneamente lo stesso prodotto nello stesso modo 
                      in ogni parte del mondo, si tratti di hamburger o dipinti: 
                      è il caso della mostra sulla Bauhaus (settembre/ottobre 
                      2009) che passa da Berlino a New York, della mostra di Tiffany 
                      (2009/2010) che viaggia tra Parigi e Montreal, della mostra 
                      di Hopper che si trasferisce nel 2010 da Milano a Roma a 
                      Losanna, della mostra sul Futurismo, quella su Hans Hartung, 
                      mostre itineranti che, secondo una ben oliata catena di 
                      montaggio, seguono i percorsi degli accordi finanziari e 
                      delle convenzioni economiche sottoscritte dalle multinazionali 
                      dell’arte.  
                      In questo modo, la scelta per l’utente, anziché 
                      allargarsi, in realtà si canalizza in percorsi guidati 
                      a scapito della varietà e della concorrenzialità 
                      dell’offerta e a beneficio di un consumo generico 
                      e indifferenziato, che viene benevolmente detto ‘multiculturale’. 
                       
                       
                      “Sono contro l’universalismo perché 
                      è una creazione dell’occidente, perché 
                      è un’ideologia occidentale, e una forma di 
                      imperialismo culturale” afferma Serge Latouche 
                      in un’intervista del 2004, e in un’altra occasione 
                      (2007) ribadisce “Quello che va demistificato 
                      è l’uso che si fa del multiculturalismo per 
                      nascondere il terribile dramma dell’uniformazione 
                      planetaria: la diffusione generalizzata di McDonald’s, 
                      della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale che viene 
                      presentato come ideale ……...”  
                    Come per qualsiasi prodotto commerciale, o commercializzabile, 
                      l’arte è oggi detentrice di significati simbolici 
                      frutto di attente indagini psico-antropologiche, con una 
                      netta prevalenza del “potere del concetto sull'oggetto” 
                      ridotto a firma, non solo quella dell’artista, ma 
                      dell’organizzazione economica che lo gestisce.  
                    Riferendosi alla strisciante McDonaldizzazione, con un 
                      ottimismo che forse alcuni anni fa poteva essere giustificato, 
                      scrive Alessandra Galasso (Il pensiero creativo : un antidoto 
                      al processo di McDonaldizzazione. 2000): "se oggi 
                      c'è un'area in cui tali principi stentano ancora 
                      a mettere le radici, questa è proprio quella delle 
                      discipline creative [....] Proprio perchè così 
                      scarsamente efficienti, calcolabili, e prevedibili ma al 
                      contrario aleatori, voluttuari, individualisti, capricciosi 
                      e fondamentalmente inutili, secondo i criteri valutativi 
                      della società fast food, le discipline creative, 
                      prima fra queste l'arte, hanno un'enorme responsabilità: 
                      quello di porsi come antidoto. Invece di sentirsi incompresi, 
                      emarginati e lontani dai proiettori del circo della società 
                      dello spettacolo, tutti coloro che operano in questi settori 
                      dovrebbero rivendicare il proprio ruolo di elementi di disturbo. 
                      Persone che hanno come scopo principale quello di invertire 
                      e scombinare i luoghi comuni, sfidare le credenze preaquisite 
                      e svelare le incongruenze, le irrazionalità del sistema, 
                      l'alienazione dell'essere umano vittima della McDonaldizzazione.L'inutilità 
                      opposta alla massimizzazione dei risultati, la qualità 
                      anziché la quantità, l'imprevisto anzichè 
                      il déja vu."    
                       
                      Tuttavia, a giudicare da ciò che si è poi 
                      verificato, pare proprio che la lotta sia impari e che l’arte 
                      non sia diversa da un hamburger. 
                       
                      Che Claes Oldenburg l'avesse già intuito quasi mezzo 
                      secolo fa? 
                     
                    link: 
                      Claes 
                      Oldenburg, "Trowel I"  
                      Arte 
                      e mercato 
                      Il 
                      caso Schnabel ed il boom della pittura contemporanea  
                     |