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Mister Gehry, ci sei o ci fai?
di Vilma Torselli
pubblicato il 03/07/2006
Diciamocelo: MARTa non è una bellezza.
Forse è il caso di precisare che MARTa non è una donna, ma un museo, un Modern ART museum dove la 'M' ha anche il compito di evocare la parola Möbel-Herford, regione del nord-ovest della Germania dove sorge la struttura, nota per le fabbriche di mobili e complementi d'arredo - mentre la 'a' richiama l'idea di ambiente.








MARTa è nato con l'idea di replicare il successo del Guggenheim di Bilbao, puntando sul fatto che Frank Owen Gehry, architetto canadese di origine ebraica al quale è stata anche in questo caso affidata la progettazione, è una gallina dalle uova d'oro che difficilmente si applica senza risultato.
Nonostante la limitatezza dei dati statistici raccolti, poiché MARTa è stato inaugurato solo all'inizio del 2005, pare che la scommessa di "costruire nel deserto" o anche di "costruire una galleria a Las Vegas" - così si esprime Jan Hoet, curatore del museo, schermendosi tuttavia davanti ad un eventuale confronto concorrenziale con il Guggenheim di Bilbao- sia vincente.

La formula magica usata dal demiurgo si chiama ancora una volta cheapscape, geniale recupero celebrativo del rifiuto, con una giusta dose di assemblage newdada, un po' di addizionalismo nouveauréalista, il tutto amalgamato da una spolverata di neo-espressionismo, il termine più vago ed ambiguo, dopo concettualismo, che si possa correlare ad un'architettura .
Come sempre insolite, incongrue, atipiche, non pertinenti, anche in questo caso le strutture di Gehry obbligano lo spettatore ad un riesame del mondo e delle forme della realtà ed alla scoperta della dignità formale e culturale di tutto ciò che è obsolescenza, abbandono, dismissione sia ambientale che strutturale, cheapscape, appunto.

Costruzione di dimensioni faraoniche, MARTa ingloba infatti una vecchia e fatiscente fabbrica di abbigliamento, attorno alla quale si sviluppa una articolata morfologia che tiene conto del contesto paesaggistico quanto il Guggenheim o la Disney Concert Hall, cioè, ad essere sinceri, non molto: del resto, Antonino Saggio scrive che le strutture di Gehry "si confrontano con i luoghi in maniera provocatoria e coraggiosa" ('Tappeti volanti', sul libro di Bruce Lindsey "Gehry Digitale. Resistenza materiale. Costruzione digitale"), che è come dire fregandosene.

Ed infatti, a dispetto delle rilevanti differenze ambientali, per non dire di quelle socio-economiche-culturali del contesto urbanistico, queste due strutture a-topiche si propongono 'provocatoriamente' incuranti e 'coraggiosamente' incongrue rispetto all'intorno, rapportate solo a sé stesse, come altre dello stesso autore - l'Experience Music Project, il Pritzker Pavilion, o l'intervento alla Case Western Riserve University, giocato, come MARTa, sul contrasto tra metallo e mattone, tra morbidezza delle lamine e rigidità delle murature - tutte varianti su un unico tema ricorrente, con le stesse ondulazioni, stesso baluginio di titanio, stesso gigantesco andamento plastico-scultoreo.

Un procedimento che la cultura visiva moderna ha desunto dall'avanguardismo del '900 e che va sotto il nome di decontestualizzazione è per Gehry pratica corrente, intesa letteralmente come "estrazione dal proprio contesto", da quella fitta rete di relazioni che collegano ogni prodotto dell'uomo alle svariate forme dell'attività culturale, civile e sociale del momento storico in cui vive, decontestualizzazione come affermazione dell'autonomia del prodotto considerato in sé, slegato da condizionamenti e da significati aprioristici e perciò reso universale, decontestualizzazione degli ordini storici e riassemblaggio secondo una logica che risponde a esigenze creative non codificate né codificabili, con l'intento di porre il fruitore nelle condizioni di valutare la realtà secondo un nuovo punto di vista, inducendolo a guardare il solito mondo con nuovi occhi.

" [….] concordo con il concetto di decontestualizzazione. Per decontestualizzare si è costretti a operare una repressione; il processo di decontestualizzazione è costante e bisogna continuamente cercare le complessità imprigionate dai tentativi di codificare, semplificare, spiegare. Penso che dovremmo tendere a rendere le cose meno comprensibili […...]", intervistato da Alessandro d'Onofrio, così dichiara, riferendosi a Marcel Duchamp, Peter Eisenman, che pratica la decontestualizzazione intricandola con il contributo concettualista della sua matrice ebraica.
Ma se per lui ed altri architetti della corrente concettuale-decostruttivista - si pensi a Rem Koolhaas, a Daniel Libeskind, a Bernard Tschumi - il risultato attinge esiti squisitamente intellettualistici, mistici o surreali o metafisici, per Gehry decontestualizzazione vuol dire soprattutto ironia, divertimento, voglia di stupire, uno spiazzante gioco di prestigio, la boutade di un astuto architetto-bambino che non perde mai di vista l'effetto scenico ed il clamore mediatico (un documentario sulla sua vita è stato affidato all'obiettivo nientemeno che di Sydney Pollack, come si conviene ad una vera star), seppure anche per lui decontestualizzazione significhi, in primis, destabilizzazione percettiva, ricerca di assoluto ed affermazione di libertà mentale.
D'altra parte, se Duchamp, il padre del '900 avanguardista, espone un orinatoio, decontestualizzandolo e chiamandolo "Fountain", Gehry potrà pure chiamare le sue mega-sculture, altrettanto decontestualizzate, 'museo' o 'concert hall', revisionando di colpo le basi storiche e strutturali della cultura di tutto l'Occidente e rivelando, novello messia, un nuovo verbo, il suo!

pagine 1-2

DE ARCHITECTURA
di Pietro Pagliardini


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