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Jean Fautrier, "Tete d'Otage n° 20"
di Vilma Torselli
pubblicato il 14/05/2007
Rapporto fisico e dialogo carnale con la materia nelle opere del padre dell'Informale europeo.
Considerato uno dei massimi esponenti dell'Informale materico europeo, Jean Fautrier (1898-1964) inaugura un linguaggio nuovo, che si ribella all'imbrigliamento della forma e della costruzione di marca cubista, denunciando un'aspirazione alla libertà, sia formale che concettuale, che resterà nel tempo la cifra più significativa del suo operare.
Con un esordio figurativo vero e proprio, Fautrier attua ben presto una revisione-regressione del suo linguaggio, arrivando a rappresentare forme umane ridotte allo stremo, scavate, essenziali, che partono da un motivo centrale, punto focale del dipinto, attorno al quale egli costruisce innumerevoli varianti: tuttavia, poichè spesso si tende ad identificare l'Informale con l'Astrattismo, va detto che Fautrier resta comunque un figurativo, che utilizza i propri mezzi espressivi con meditata accuratezza tecnica lontana da ogni improvvisazione.

Nasce da tutto ciò la serie di cui questo "Tete d'Otage n° 20", del 1944, fa parte, nota come la serie degli "Otages" (Ostaggi), esposta per la prima volta a Parigi presso la Galleria di René Drouin, iniziata nei primi anni '40, epoca dell'occupazione tedesca in Francia che sfocerà nella tragedia della seconda guerra mondiale ed in quella lunga successione di orrori che tanti artisti contemporanei denunceranno con sofferta partecipazione.
La forma tende a scomparire, erosa nei suoi contorni, concretizzata in una serie di stratificazioni disordinate e rugose, ridotta ad una massa di grumi di colore agglutinato (che l'artista stesso preparava facendo bollire la tempera con la colla), ridotta a materia pura e caotica, eppure è riconoscibile in quell'ammasso indefinito una sembianza umana, la tragedia di una vita, la sofferenza, il sacrificio, grazie alla potenza evocativa della materia dilaniata e brutalmente percorsa da spatolate pesanti e spesse.
Sullo sfondo indistinto la sagoma sommariamente accennata del capo suggerisce una forma antropomorfa ectoplasmica, mentre la macchia biancastra centrale accenna ad un incarnato percorso secondo l'asse mediano da un segno rosso discontinuo evocante il profilo di uno dei tanti "Otages " ("......il grumo di materia sia come carne da obitorio, sia come possibile feto....)" (Antonio De Lisa, "Jean Fautrier, l'artista come demiurgo").
É lo stesso corpo a corpo con la materia, protagonista inerte eppure capace di sofferenza, di memoria e di riscatto a cui assistiamo da impotenti spettatori nelle opere di Tapies e di Burri, riconoscendovi le tracce di un dolore cosmico al quale sentiamo di appartenere.

Il rapporto di Fautrier con la materia ha un significato altamente simbolico: "L'artista francese, infatti, delineava la prima immagine su un cartone montato su tela con il pennello e gli inchiostri. Si dedicava ad applicare l'impasto sul disegno tracciato; quindi aggiungeva polveri colorate e altri strati d'impasto. In questa fase spugnava e impastava la materia come si fa col pane, in un processo di manipolazione altamente simbolico. Quindi spargeva altre polveri sull'ultimo strato facendo in modo che in alcuni punti si fissassero all'impasto fresco e oleoso, in altri punti le incorporava con il pennello. Nella veste di "plasticatore" riprendeva poi il disegno rimasto coperto dalla pasta e con uno strumento metallico, molto spesso un coltellaccio, tracciava sulla pasta solchi sottili che si aggiungevano ai tratti del disegno ....." (Antonio De Lisa, idem).

In un rapporto fisico complesso ed accuratamente prolungato, da un dialogo carnale con la materia che ha la sacralità di un rituale purificatore, derivano organismi mostruosi simili ad elementi smembrati, teste dove la sembianza umana è distorta dalla sofferenza, brutali metafore di un'esistenza fragile ed indifesa della quale vediamo sulla tela ciò che resta dopo lo scempio.
E solo dopo ci accorgiamo che questa pittura lacerata è un macabro ritratto, abbozzo prenatale o resto decomposto di quello che era un uomo, bloccato nel suo momento più disperato, e che la materia aggrovigliata che abbiamo davanti è la sua stessa carne, è sangue, ossa e pelle.
Con orrore, e con pietà.

* articolo aggiornato il 31/08/2016


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