Alla nascita, la fotografia venne salutata come il medium meccanico che, proprio per essere tale e quindi neutro ed oggettivo, poteva assumersi di diritto il compito di copiare i modelli del mondo visibile nel modo più fedele possibile.
In realtà, lo si capirà presto, il fotografo non si limita a schiacciare il bottone di una macchina, ma esercita personali e soggettive opzioni sulla scelta del frammento di realtà che decide di fotografare, sulle condizioni di luce, sul punto di vista, su una lunga serie di situazioni variabili nelle quali trascrivere la propria visione del mondo, il suo stato d'animo, le intenzioni, la cultura, il vissuto, soggettivizzando inequivocabilmente il risultato finale e definendo un suo personale ‘stile’.
Non si è ancora spento il dibattito tra critici, fotografi e storici su questo punto nodale, che la massiccia invasione delle tecnologie digitali già mette altra carne al fuoco, assecondando di volta in volta la deriva meccanicistica o quella filosofica di una disputa che si prospetta lunga e vivace.
Personalmente credo che oggi le tecnologie digitali influenzino la fotografia così pesantemente da imporne un ripensamento del suo stesso concetto, sia da parte di chi la produce sia da parte di chi ne fruisce, e che la fotografia, così come fino ad oggi pensata, vada sempre più spostandosi verso il folto gruppo delle ‘attività creative visive’ genericamente intese.
Chi/cosa erediterà il compito di rappresentare oggettivamente e fedelmente il reale appare oggi sempre più difficilmente prevedibile e forse sempre meno importante, in un momento culturale in cui l’indeterminismo, inteso come visione indeterministica dell’esistenza secondo un concetto originariamente meccanico (pensando al ‘principio’ di Heisemberg), esonda nella visione filosofica diventando capace di condizionare la nostra percezione del mondo, evidenziando l’impossibilità di distinguere nettamente tra soggetto ed oggetto in una realtà di cui siamo contemporaneamente spettatori e attori.
Una condizione ambivalente che si adatta perfettamente alla posizione sia del fotografo che dell’osservatore nei confronti del fotografato.
Per quanto possa apparire azzardato il salto logico, mi piace ricordare il parallelismo tra fisica quantistica e psicologia del profondo (ricordando Gustav Jung e Wolfgang Pauli) per ciò che riguarda il superamento del rapporto causa-effetto e delle sue rassicuranti prevedibilità, o anche, in termini certamente più intuitivi, il processo della Confirmation Bias sulla soggettività dei processi cognitivi, in base al quale selezioniamo e interpretiamo le informazioni di qualsiasi tipo attribuendo maggiore rilevanza e maggiore credibilità a quelle che confermano le nostre preesistenti convinzioni o aspettative (ciò che accade quando leggiamo l’oroscopo!)
Per questo meccanismo, pur credendo che chiunque oggi, davanti ad un’immagine fotografica, si ponga almeno un dubbio sulla sua veridicità, essa resta il mezzo di comunicazione d’elezione nella nostra ‘società dell’immagine’ perché risponde in modo prevedibile e quindi credibile all’idea che abbiamo della possibilità di rappresentazione del mondo.
Quasi che si sia instaurato nell’osservatore un processo mutuato dalla narrativa, secondo il quale viene stipulato, tra osservatore e autore, il ‘patto di sospensione dell'incredulità’: il lettore o l’osservatore o l’ascoltatore accetta di credere in qualcosa che sa essere finzione o frutto di manipolazione, di sospendere le proprie facoltà critiche, di sacrificare il proprio senso logico in cambio di ciò che l’opera gli procura di piacevole o emozionante o estetico, fatto su misura sulla propria sensibilità perché autoprodotto.
L’ipotesi non è poi così azzardata: se la fotografia è un linguaggio, possiamo aspettarci che essa sottenda un racconto e che la sua fruizione ricalchi gli stessi schemi di una narrazione alla quale chiedere non il realismo, ma la credibilità, una coerenza intrinseca che renda possibile una sorte di atto di fede (o, appunto, di patto di sospensione dell'incredulità).
Poiché il nostro cervello viene ‘educato’ a guardare, estraendo dall’esperienza ripetuta parametri di valutazione che fa propri, questo nuovo modo di guardare la fotografia, e prima di questa il mondo, sta rapidamente strutturando nuovi parametri di giudizio adattati alle nuove tecnologie, mirando ad un allineamento tra ciò che vediamo e ciò che si vuole farci vedere: la consuetudine reiterata di proporre immagini digitalmente elaborate opera nel tempo una vera e propria distorsione percettiva di massa, un 'bias cognitivo' che altera i riferimenti collettivi introducendo un ‘errore’ nel sistema di decodificazione dell’immagine, errore che finisce per integrarsi e sostituire i riferimenti iniziali.
Cosicché mentre si allarga sempre più il divario tra l’immagine originale e il risultato finale, sempre più ci adattiamo a identificare il risultato finale come immagine originale.
E’ evidente la necessità del contributo volontario e personale dello spettatore, una connivenza nella menzogna, la tacita accettazione che la relazione tra contenuto (la trama del racconto) e la sua narrazione (il linguaggio espressivo adottato) possano essere soggetti ad una pluralità di variazioni tutte dotate di senso.
Oggi il senso all’immagine viene attribuito da una molteplicità di soggetti decisionali: l’art director, il fotografo, il grafico, il tecnico della postproduzione, il cliente-committente ecc., e tutto il processo segue, nella maggior parte dei casi, le dinamiche dell’advertising, tanto che sarebbe più appropriato parlare di digital imaging anziché di fotografia.
Gianni Canova, critico cinematografico, parlando di cinema formula osservazioni che si adattano perfettamente a queste dinamiche percettive.
E si chiede: “Lo spettatore vuol essere ingannato?”
“Lo spettatore cinematografico [.....] sa di essere immerso in una finzione. Lo sa e lo vuole. Ha scelto lui di entrarci dentro [.....]. La finzione [.....] ti avvolge, ti avvince, ti dice la verità. Ti dice: ti sto ingannando. E nel momento in cui te lo dice, smette di ingannarti [.....] Nella misura in cui ti dice la verità su ciò che ti sta facendo [.....] non ti inganna più. E tu lo sai. Lo sai e ci stai.”
E l'osservatore, ci dobbiamo chiedere, davanti ad un'immagine fotografica che spudoratamente, sistematicamente, immancabilmente lo inganna, vuole essere ingannato? Entra in gioco la stessa chiave di lettura?
Forte il dubbio che questa fotografia ingannevole, eventuale, frammentaria, non riconducibile ad una qualsiasi verità ultima, sia invece la rappresentazione più vicina ad una realtà pirandelliana tragicamente attuale, riflessa in mille pezzi di specchio, metafora dell’incapacità di distinguere tra realtà e finzione, della vana ricerca di una identità personale e collettiva perduta per sempre. |