La dimensione eminentemente concettuale dell’arte moderna, “dove dominano l’idea e la partecipazione interrogativa dello spettatore”, l’abbandono ed il sovvertimento di consolidati canoni espressivi rimasti immutati per secoli, hanno determinato la fine del racconto nei termini iconografici entro i quali si è dipanato sino al tardo ottocento, dopo di che il significato dell’opera d’arte si è ripiegato su sé stesso identificando il senso dell’arte nell’arte stessa, qualunque cosa di riconoscibile o meno essa rappresenti ed in qualunque forma la esprima.
Ma l’arte non ha per questo cessato di essere una forma di comunicazione, e come tale non ha cessato di necessitare, per esprimersi, di linguaggi decodificabili, obbedendo, come qualsiasi sistema comunicativo, a codici, strutture e vincoli propri.
Da Duchamp in poi (Pop art, Minimal art, Concettualismo ecc.) l’arte si è mossa nella direzione di riportare al suo interno il significato, svalutando ogni considerazione estetica e formale, privilegiando ciò che si dice rispetto alla forma nella quale lo si dice, entro una struttura narrativa che non è più definita e convenzionale: per questi motivi la decodificazione non si attua più (soltanto) attraverso l’osservazione dell’opera, ma si affida anche ad un insieme variabile di informazioni generali sul suo artefice: “Si tratta cioè di orientarsi in base ai punti di partenza dell’artista e di comprendere aspetti teorici concernenti soprattutto la cronologia e le sensibilità di modernismo e postmodernismo che […. ] hanno costituito il contesto generale della discussione sull’evoluzione delle arti visive in questa fase temporale.“
(Mary Acton,“Guardare l’arte contemporanea", 2008).
Cacciato dalla porta, il racconto rientra dalla finestra, non più narrazione delle cose e dei fatti, ma delle idee, delle convinzioni, delle motivazioni, delle esperienze dell’autore.
Il quale lavora attorno a quella che Paul Crowther chiama “intuizione principale” ("The language of twentieth-century art", 1997), ossia un significato variabile a seconda del punto di vista che si adotta nei suoi confronti.
Vengono in mente le parole di Luca Baldacci che, in un articolo del 1985, scrive:”Duchamp arriverà alla negazione dell’arte come fatto, in quanto si sostituisce al fare dell’artista la dichiarazione verbale, il concetto di quel che si vorrebbe fare [ …… ] tutta l’arte moderna, in un certo senso, può essere chiamata concettuale nella misura in cui il programma, la poetica, il manifesto, l’intenzione e la dichiarazione critica finiscono per mangiarsi lo spazio destinato all’opera, a precederla e a sostituirla. Così che l’opera è tutta nelle istruzioni per l’uso contenute nel catalogo della mostra.”
Ciò vale sia per l’arte visiva che per l’architettura, non c'è artista o architetto contemporaneo che si esima dal fornire ampie istruzioni per l’uso, dall’illustrare, spiegare, delucidare il senso ed il modo del suo creare opere marcatamente espressioniste, più che altro espressione di sé.
Agevolate dall’offerta mediatica, le dichiarazioni, le interviste, le pubblicazioni si sprecano: Daniel Libeskind espone con precisione e dovizia di particolari le basi concettuali ed emozionali del suo progetto per il Museo ebraico di Berlino in una lunga conferenza nel 1999 in occasione dell’inaugurazione dell’edificio, così come Gehry evoca in più occasioni la metafora del pesce per spiegare (giustificare?) la sua idea di struttura guizzante e sgusciante, spesso ricoperta di squame lucenti come nel Guggenheim di Bilbao, o la metafora del cavallo che corre libero sulle colline di Elciego quando realizza le strutture rotolanti dell’ hotel Marques de Riscal o quando ingloba entro la forma di una testa equina la sala riunioni della Dz bank di Berlino, per non dire della madre di tutte le metafore, quel cheapscape da cui tutto ha inizio.
Va rilevato come anche in architettura si faccia strada l’anomalo uso della metafora, non più utilizzata come elemento di relazione tra forma e funzione, ma come tema in sé, con procedimento tipico dell’arte moderna: la metafora concettuale è infatti essa stessa un modo di rappresentare ed organizzare il mondo, non più uno strumento del linguaggio avente ruolo puramente comunicativo, di trasferimento di significato.
E questo non fa che complicare le cose!
Tanto che, paradossalmente, succede che mentre possiamo leggere nelle opere di un lontano passato storico, nel Partenone o nei mosaici di sant’Apollinare, una visione del mondo senza neanche sapere da chi sono stati eseguiti, ciò non è possibile davanti ad una struttura di Gehry o un quadro di Pollock, opere contemporanee leggibili solo se corredate di corollari scritti o verbali forniti dagli autori, i quali acquisiscono così la stessa importanza dell’opera (questo potrebbe spiegare l’importanza della figura dell’archistar).
E’ la 'distanza' il vero problema dell’arte e dell’architettura contemporanea, una distanza che elimina l’attrito, ciò che Baldacci fa derivare dalla resistenza (nel bene, come contatto, e nel male, come rifiuto) che il pubblico esercita nei confronti dell’opera: se la sperimentazione esasperata e l’eccentricità prevalgono sulla qualità espressiva, se la comprensione di questa meta-arte necessita di intellettualizzazione e concettualizzazione, e non resta altro da fare che prendere atto dell’irreversibilità di questo processo che parte da lontano e che restringe sempre più ad un’élite di addetti ai lavori l’accesso a questo tipo di comunicazione, vuol dire che “Duchamp non è stato altri che il notaio di una civiltà e di una società che hanno finto d’identificare l’arte con la libertà, e in realtà l’hanno abolita.”
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Ready-made, cheapscape, junkspace…... ma che sarà mai?
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