| Il quartiere parigino della Défense, una specie di 
                    Manhattan europea arroccata ad ovest della città sopra 
                    lo snodo ferroviario più importante d'Europa, è 
                    stato voluto da François Mitterand nellambito 
                    di una grandiosa operazione urbanistica che ha trasformato 
                    e riqualificato vaste zone di territorio come solo la Francia, 
                    che coltiva con tenacia il mito della sua grandeur, sa fare. Credo che la Francia sia la nazione europea che meno di tutte 
                    teme leffetto monumento, intrisa comè 
                    la sua cultura di una forte componente celebrativa che trasforma 
                    ogni intervento in unoccasione esibizionista, in simbolo, 
                    in memoria da tramandare alla storia dellumanità 
                    tutta. "La Grande Arche de la Fraternitè", del danese Johan Otto Von Spreckelsen (1929-1987), scomparso due anni dopo  l'ultimazione del cantiere,
                    viene inaugurata nel 1989 in occasione della celebrazione, neanche 
                    a dirlo!, del bicentenario della Rivoluzione francese: 
                    assieme alla piramide di cristallo del Louvre di Ieoh Ming 
                    Peï ed alla celebre torre dellingegner Eiffel, 
                    La Grande Arche è il più audace monumento che la Francia abbia eretto 
                    a sé stessa. Acme della più spettacolare scenografia 
                    urbanistica delloccidente, coraggioso e superbo omaggio 
                    ad un assetto urbanistico tra i più sontuosi dEuropa 
                    retto sullinfilata monumentale Louvre-Concorde-Place 
                    de l'étoile, che con questo nuovo ampliamento viene 
                    allungato di quattro chilometri, la Grande Arche rappresenta 
                    un confronto diretto tra passato e futuro, tra quella che 
                    si potrebbe chiamare linutilità di una struttura 
                    che ha come solo scopo la vacua esibizione di sé, lArc 
                    de Triomph, e la funzionalità di un edificio che può 
                    ospitare 2000 persone su 87.000 metriquadri di superficie 
                    utile.
 Concepita come un enorme cubo pressoché perfetto rivestito 
  di candido marmo di Carrara di 110 metri di lato, svuotato 
  nel centro, la Grande Arche ha laspetto enigmatico e 
  sacrale di un simbolo iniziatico, un gigantesco monolite che 
  pare uscito da un film di Stanley Kubrick, una porta magica, 
  uno stargate che getta un ponte verso leternità. "La caratteristica più interessante del cubo 
                    è proprio il suo essere relativamente poco interessante. 
                    Paragonato a una qualunque altra forma tridimensionale, il 
                    cubo manca di aggressività, non implica movimento ed 
                    è il meno emotivo. E' dunque la forma migliore da usare 
                    come unica base per ogni funzione più complessa, l'espediente 
                    grammaticale da cui far procedere il lavoro. Poiché 
                    è standardizzato e universalmente riconosciuto, non 
                    richiede alcuna intenzionalità da parte dell'osservatore; 
                    è immediatamente chiaro che il cubo rappresenta il 
                    cubo, una figura geometrica che è incontestabilmente 
                    se stessa. L'uso del cubo evita la necessità di inventare 
                    un'altra forma prestandosi esso stesso a nuove invenzioni" 
                    : sono parole di Sol Lewitt che illuminano il processo creativo 
                    allorigine dell'opera, darte o di architettura 
                    che sia, per il quale lidea dellopera costituisce 
                    di fatto la sua stessa identità, poiché la Grande Arche è, 
                    infatti, prima di tutto un cubo. Per farlo ci voleva il coraggio di un danese, figlio di una 
                    civiltà che per eccellenza parla un linguaggio semplice, 
                    funzionalista, sobrio e rigoroso, che riesce a progettare 
                    un edificio al tempo stesso simbolico ma non retorico, grandioso 
                    ma non ridondante, moderno ed arcaico insieme. Portato allestremo 
                    il moderato razionalismo danese che pone sullo stesso piano 
                    la destinazione, la progettazione e la realizzazione dellarchitettura, 
                    più che mai lontana la lezione dellarchitettura 
                    organica in un linguaggio di olimpico autocontrollo, von Spreckelsen 
                    realizza unopera in un certo senso anomala che è 
                    tutto ciò che unarchitettura moderna non deve 
                    essere, sintesi di tutti i no contro i quali ha teorizzato 
                    Bruno Zevi, indifferente sia ai codici tradizionali che a 
                    quelli modernisti, verso la quale la critica ufficiale, forse 
                    per questo, non è prodiga né di commenti né 
                    di apprezzamenti: scatola chiusa e isolata, simmetrica, monumentalista, 
                    di severo geometrismo, superbamente prevalente sul paesaggio, 
                    nella quale la funzione terziaria è saldamente bloccata 
                    in uno schema rigido ripetitivo e modulare .L'impostazione umanistica delleducazione culturale di 
                    von Spreckelsen è al di sopra di ogni sospetto, come 
                    tutti gli architetti danesi egli pone luomo a misura 
                    dellarchitettura, le sue chiese, come quella di San 
                    Nicola a Hvidovre o di Stavnsholt a Farum, sono esempi cristallini 
                    di purezza formale ineguagliata, in cui la matrice artigianale 
                    si legge nellattenzione quasi sensoriale per i materiali, 
                    nellelevato standard esecutivo, nella cura minuta dei 
                    particolari, elementi che von Spreckelsen riesce a trasferire 
                    in un progetto su scala decisamente disumana.
 Architettura di grande valenza scultorea in un volume di 
                    essenzialità zen, frutto di uninflessibile semplificazione e riduzione formale allinsegna del less is more 
                    di Mies van der Rohe, estrema sintesi formale che in qualche 
                    modo, seppure azzardato, rimanda a Costantin Brancusi, per 
                    il quale la semplicità non è riduzione ma complessità 
                    risolta, o a certe utopiche opere concettuali di Sol 
                    LeWitt ("Curved Wall", Cinderblock, 
                    Irregular tower ecc..), la Grande Arche di von 
                    Spreckelsen, minimalista ma tuttaltro che poverista, 
                    non mira ad ottenere il massimo risultato con il minimo dei 
                    mezzi, ma ad ottenere il massimo da una selezione rigorosa 
                    tra il meglio possibile, sia per ciò che riguarda la 
                    tecnologia che i materiali che le tecniche costruttive, ricercando 
                    il risultato finale proprio in unessenzialità 
                    che non si può porre in discussione perché talmente 
                    perfetta da non ammettere varianti. Costruito su una scala dimensionale anonima ed universale 
                    che non cerca confronti gerarchici né aspira a rapportarsi 
                    alla figura umana o alla realtà circostante, ma anzi 
                    a rifuggire da ogni riferimento percettivo e da ogni classificazione 
                    tipologica, mostrandosi in una totalità immediata ledificio 
                    afferma la sua spartana semplicità come imprescindibile 
                    categoria dello spirito, frutto di un progetto perfetto come 
                    la forma geometrica in cui è inscritto, algido nel 
                    nitore di linee impeccabilmente rette ed ortogonali, di superfici 
                    piane, senza esitazioni né concessioni divagatorie. Ciò che stupisce, tuttavia, con la rarefatta eleganza 
                    della struttura, la sua siderale atemporalità, è, 
                    nonostante tutto, la presenza delluomo, è come 
                    von Spreckelsen, pur rifuggendo ogni possibile autocelebrazione 
                    narcisistica, riesca ad esserci ed a siglare con la sua orma 
                    terrena un territorio di dimensione non umana. Come?  Così come accade all'asse della Cour Carrée del Louvre e alla Place de la Concorde a causa della presenza di infrastrutture sotterranee, il progetto prevede un lieve disassamento di soli 6°33'   del 
                    nuovo  impianto rispetto al tracciato dei Champs Élysées,  introducendo così una impercettibile 
                     imperfezione che umanizza con un tocco 
                    di leggera ironia un disegno urbanistico giocato sul simbolismo 
                    evocativo di una trionfale infilata prospettica. Dopo di che  inserisce nel vuoto centrale due elementi estranei, in netto contrasto con la monumentalità dellinsieme: 
                     un blocco ascensori aereo e trasparente 
                    alloggiato in un traliccio metallico ed un piccolo padiglione, 
                    "Les nuages", con copertura irregolare in fibra 
                    di vetro sorretta da unesile tensostruttura in fili 
                    dacciao, opera di Paul Andrei, a cui si deve lultimazione 
                    delledificio.Leggi "C'è nuvola e nuvola...."
 Elementi destabilizzanti, irregolari, leggeri, aperti, indefiniti 
                    allinterno di una massa precisa e bloccata, paiono luno 
                    una provvisoria struttura da cantiere in tubi Innocenti e 
                    laltra un bianco telo teso casualmente e mosso dal vento, 
                    una nota di improvvisazione e quasi di incompiutezza, metafora 
                    della provvisorietà che accompagna la vita delluomo, 
                    anche quando erige un monumento per leternità. |