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Andy Warhol, "Elvis I and II"
di Vilma Torselli
pubblicato il 5/05/2007
Spersonalizzazione ed annullamento dell'emotività in un'arte ripetitiva e riproducibile, senza nessuna connotazione individuale, il consumismo e il suo potere di massificazione filo conduttore in un'arte priva di qualsiasi messaggio sociale.
La Pop Art è il più tipico movimento artistico, prevalentemente americano, degli anni '60, così come l'Espressionismo astratto lo era stato per gli anni '50, ed è una sorta di spartiacque sotto due punti di vista: divide l'arte moderna da un fenomeno più attualizzato che si identifica come arte contemporanea, e divide nettamente l'arte americana da quella del resto del mondo, perchè, più di qualunque altro movimento dichiaratamente americano, la Pop Art è qualcosa di assolutamente peculiare rispetto a ciò che avviene in Europa ed alla stessa Pop Art inglese.
Padre spirituale, senza dubbio il più noto, se non il più valido, esponente dell'arte pop è Andy Warhol o Andrew Warhola (questo il suo vero nome) (1928-1987), enigmatica personalità artistica ed umana, per capire il quale è utile indagare in un retroterra culturale e professionale del tutto particolare, fortemente incisivo nella definizione della sua poetica.

Warhol proviene dall'illustrazione commerciale, ha fatto il vetrinista, l'allestitore di stand, il redattore di cataloghi, ha realizzato cartoline e biglietti augurali, attività nelle quali predomina l'assoluta sottomissione alle esigenze ed ai gusti del cliente, che è il vero destinatario dell'emozione derivata dall'opera, in una sorta di spersonalizzazione, di annullamento dell'emotività artistica, che definiranno indelebilmente il suo modo di operare.
Da questo mondo privo di emozioni e di stile personale, dove l'oggetto artistico è essenzialmente un oggetto del desiderio, da commercializzare nel modo più efficace, Warhol volge poi la sua attenzione al mondo dei fumetti, realizzando gigantografie delle strisce di Dick Tracy, sempre con funzione decorativa (per le vetrine di Lord and Taylor), optando ancora una volta per un'esecuzione che non ha nulla di "naturale", di istintivo o emotivo, nella quale è bandita ogni traccia personale della mano dell'artista, nella quale intenzionalmente viene abolita ogni impronta di soggettività, a beneficio di una soluzione formale che vada bene per tutti e per ogni scopo, anonima e perciò universale.

L'oggetto rappresentato non ha altro fine che proporre sè stesso, non messaggi o idee, non deve suscitare emozioni, deve solo apparire per quello che è, preferibilmente un familiare simbolo dell'american way of life, anche quando si tratta di una semplice scatola di minestra: intervistato da G.R.Swenson, storico dell'arte, nel 1963, sul perchè avesse riprodotto proprio una scatola di zuppa Campbell, risponde "Perchè mangiavo quella minestra. Ne ho mangiata ogni giorno, credo per una ventina d'anni....."
A sottolineare la mancanza di significato della rappresentazione, Warhol introduce poi il concetto della ripetitività seriale della stessa, come per questo "Elvis I and II" del 1963, che perde ulteriormente ogni carattere identitario proprio perchè riproposta più volte sempre monotonamente uguale a sè stessa, priva di caratteristiche distintive, giungendo così, coerentemente, al passo successivo, che è quello della riproduzione meccanica dell'opera (sono gli anni '60), oltretutto in termini formali di una voluta rozzezza esecutiva (serigrafie di bassa qualità, nelle quali è in dubbio il suo stesso intervento).

E' la stigmatizzazione di una società consumistica che segue passivamente comportamenti di massa omologati e ripetitivi, come se anche la vita degli uomini possa essere impostata a macchina e fatta in serie, alla quale Warhol si adegua, mettendone ironicamente in risalto gli aspetti grotteschi e dicendo: "La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina, e sento che qualsiasi cosa io faccia come una macchina è precisamente ciò che desidero fare."

Se mai Warhol avesse avuto aspirazioni artistiche verso la pittura o il disegno, il suo percorso personale lo allontana definitivamente da questo ambito, esasperando la componente in un certo senso concettuale del suo lavoro, che si connota definitivamente nella demistificatoria esibizione dell'oggetto banale e quotidiano, del prodotto di serie industriale, decontestualizzato e proposto come arte agli occhi di una società culturalmente livellata, incapace di vedere oltre gli archetipi consumistici esposti nei supermercati.
Il consumismo, il suo potere di massificazione, le sue possibilità di divinizzazione, la sua capacità di azzeramento dell'individualismo sono il tema ricorrente che lega tutta l'opera di Warhol, un consumismo che egli estende anche all'arte, evidenziandone i meccanismi di commercializzazione e sfruttando abilmente le leggi del mercato, fondando nel 1957 la “Andy Warhol Enterprises”, un’azienda attraverso la quale attuare una massiccia commercializzazione delle sue opere, con spregiudicati intenti speculativi : "Business art is the step that comes after Art. I started as a commercial artist, and I want to finish as a business artist. After I did the thing called "art"or whatever it's called, I went into business art. I wanted to be an Art Businessman or a BusinessArtist."

La commercializzazione dell'opera riprodotta viene attuata secondo le regole della pubblicità, secondo i criteri dello stile impersonale e tecnologico del marketing, nasce una nuova sensibilità ottica dell'immagine, celebrata per sè stessa, priva di qualsiasi messaggio sociale.

E', quello di Warhol, un atteggiamento di sfiducia totale nelle possibilità di riscatto dal sonnolento consumismo del benessere e della sovrabbondanza, è un nichilismo totale che, in una parte forse meno nota della produzione di Warhol, sfocia nella riproduzione serigrafica di una serie di scene catastrofiche, da lui battezzate "Disasters", di manifestazioni di piazza o di incidenti stradali, in immagini volutamente raccapriccianti e sgradevoli.
A simboleggiare il rifiuto della società verso gli aspetti della realtà meno piacevoli ed edonistici, le scene urtanti vengono ricoperte da una mano di colore trasparente, sulla gamma dei rosa-arancio, che in una certa misura filtra fisicamente l'immagine ed emotivamente la reazione dell'osservatore, con un effetto anestetizzante verso il dolore e la tragedia. E' esattamente ciò che accade nella vita di una società dove la violenza è regola, dalla quale ci si difende con l'indifferenza e con l'assuefazione, perchè, come osserva Warhol, "quando osservate uno spettacolo raccapricciante abbastanza a lungo, esso cessa di farvi un qualsiasi effetto."

Come sempre accade quando si parla di arte, la negazione della volontà di fare arte è già di per sè una scelta in qualche modo "artistica", è accaduto per il Dadaismo, è accaduto con Duchamp, e quando Warhol decide di "sacralizzare la merce come merce", compie tutto sommato un'operazione di sublimazione della merce e dell'atto della mercificazione, e in definitiva fa dell'arte, anzi fa della Pop Art.


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Trent'anni dalla morte di Andy Warhol
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