L’obbiettivo dell’esposizione
Fare Mondi della 53esima Biennale d’arte di Venezia
è quello di creare essenze a sua volta, di agire
attraverso la creazione di un ambiente esperienziale che
si arricchisce venendo a contatto con la moltitudine delle
menti. Nel caso esse siano pensanti, le modifica diluendosi
nel flusso e circolando così sottoforma di cangiante
e mutevole traccia, sia fisica che mentale (Hawana
Aloba/Yoko ono). Sarebbe fuorviante intendere
la presenza del singolo artista come rappresentativa in
partenza di una classe sociale o culturale: ciò sarebbe
una classificazione a priori, mentre è più
intellettualmente produttivo considerare il tutto, il percorso
sperimentale che si nutre del terreno fertile dalla mescolanza.
In questo senso Fare Mondi tenta di essere una nuova entità
che vive della ricchezza prodotta dall’interazione
delle differenze sfruttando le possibilità dell’inevitabile
collisione e differenziandosi così dalla semplice
esposizione inventariale dei singoli artisti. E’ un
tragitto che si snoda tra scenari toccanti in una prosecuzione
fatta di alti e bassi, meno sfarzoso e più concettuale,
il che non è male se si pensa che in ogni circostanza
si tende usualmente a colpire più che a parlare.
All’inizio del percorso il buio avvolgente (Lygia
Pape) convoglia lo sguardo verso il cangiante riflesso
della luce sui fili, quasi a predisporre il corpo e la mente
all’attenzione, e sembra preparare i sensi allo shock
percettivo che coglie entrando nella seconda e illuminatissima
sala (Michelangelo Pistoletto) in cui le
immagini della realtà sono moltiplicate dal riflesso
nei frammenti degli specchi. Proseguendo, l’interazione
fra gli elementi si mantiene attiva e significativa, privilegiando
la visione corale, che non depaupera l’apprezzamento
delle individualità. Appare netta la necessità
di incamerare parte dell’evento così da trasportarlo
visceralmente in ognuno di noi e nello spazio.
Il rendere attiva l’opera, trasformarla in organ(ism)o
pulsante e modificabile è ancora una volta esternato
dall’opera di Aleksandra Mir, ed
attentamente deformato da Anawana Haloba,
entrambe concentrate sull’asporto/trasporto di parti
delle opere con un approccio riflessivo e critico.
Probabilmente è per rendere il terreno più
ricettivo, o per non distogliere l’attenzione dalla
voce dell’arte, che la manifestazione nel complesso
risulta più sobria della precedente; ciò non
toglie che a volte per far risaltare i chiaroscuri si sfumi
l’impatto percettivo ed appaia quindi come una musica
sussurrata. Inoltre impedimenti fisici, come le lunghe file
o mucchi di persone all’arrembaggio, si sommano alle
complessità insite nelle strutture, ai trasporti
e all’organizzazione della città e del motore
Biennale in sé, e che spesso concorrono a spezzare
l’atmosfera percettiva nella sua interezza. In particolare
non si dimentica l’epopea titanica intrapresa per
raggiungere l’Arsenale Novissimo, comunque ampiamente
riscattata dalla visione della piacevolissima Unconditional
Love e dal contributo offerto “di getto”
da Jan Fabre a questa edizione dell’esposizione.
Ci si ritrova comunque in una pluralità che produce
continuità, non dimenticando le singole parti. Una
menzione speciale va al lavoro del Cile che con Ivàn
Navarro coniuga la profondità del messaggio
con una resa spettacolare ampliata con profondità
luministica e interattività meccanica nell’ambiente.
Più usuale appare il Padiglione Italia che non osa
nel proporre e nemmeno nel collegare i vari artisti rappresentati;
nella molteplicità emergono comunque alcune notevoli
personalità: per la straordinaria tenerezza trasmessa
Valerio Berruti, per la viscerale matericità
il lavoro di Aron Demetz e per la resa
di qualità che non tralascia la traduzione scenografica
il lavoro di Daniele Galliano e Giacomo
Costa.
A volte la confusione è troppa, come nel caso del
Palazzo delle Esposizioni ai Giardini, tanto da indurre
all’apprezzamento del singolo più che all’impressione
del complesso. Soprattutto quando sono sfruttate al massimo
le possibilità dello spazio per trasmettere, le opere
riescono a superare le “impossibilità architettoniche”
dovute alla conformazione degli spazi dei padiglioni e,
nel caso gli artisti siano più di uno, a creare un
dialogo aperto e creativo con l’ambiente e il fruitore.
Notevole è in questo senso l’opera di Nathalie
Djurberg che risulta profonda sia per valore estetico
che concettuale, nonché quella di Tobias
Rehberger che in stretta connessione col mondo
della geometria e del design reinventa un ambiente, solitamente
votato al mero rapporto fruizione/utilità, come quello
della caffetteria.
Mixed Exquisite Artists:
Renata Lucas, Simone Berti, Ulla Von Brandenburg, Rebecca
Horn, Paul Chan, Chu Yun, Hans-Peter Feldmann, Sunil Gawde,
Anna Parkina, Bestué/Vives, Claude Lévêque,
Miwa Yanagi, Lucas Samaras, , Péter Forgács,
Teresa Margolles, Krzysztof Wodiczko, Raquel Paiewonsky,
Simon Starling, Hector Zamora, Wolfgang Tillmans, Franziska
e Lois Weinberger, Bertozzi&Casoni.
Mixed Exquisite Exibitions:
Glasstress, The Collectors, Unconditional Love, Distortion.
Tra le funzioni sistematiche previste da un’istituzionale
calamità innaturale quale la Biennale di Venezia,
esiste quella di recapitare allo spettatore l’andamento
coevo del gergo artistico nelle sue poliedriche manifestazioni,
prendendo le dovute distanze dalle soggettività preferenziali
e dal temperamento estetico personale.
Fare Mondi si estende attraverso una narratività
sfogliabile quanto quella di un libro rilegato a mano, tenuto
assieme da un’idea letteraria di sutura e giuntura
non meno importante della storia raccontata. Se Birnbaum
ha ragione quando scrive che l’opera d’arte
deve creare mondi e non essere un oggetto, l’alternanza
muscolare riservata all’allestimento degli spazi dell’arsenale
diventa un planisfero ibrido in cui viaggiare senza muoversi. |