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L'OMONIMO ACRONIMO
Ovvero come la ripetizione annulla l'effetto.
di Cecilia Caliari
pubblicato il 14/05/2009 |
Se si decide di credere che
lo spazio d'uso comunicativo sia ambiente d'utilizzo plurale
e senza riserve, serve accettare il bisogno di rivolgere volumi
a penne ritenute meritevoli. Presa distanza da falsi altruismi
lavati con troppo ammorbidente, “Art & the City”
decide di dedicare con saltuaria eleganza le proprie stanze
a metodologie pensanti apparse senza dirlo.
Questa, la prima, è CECILIA CALIARI.
A voi auguro una buona lettura, a me un rifugio d'occorrenza
dall'errore della generosità che confida.
S.E. |
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Ben Vautier
BonneCrise |
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k - LinGe
WhaT aRe YoU LoOkinG fOR? |
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L'istituzione museale è
una risorsa basilare al fine di sostenere il sistema socio
economico della società in cui è inserita.
E' uno strumento attivo, generatore di crescita in termini
economici e di prestigio, ma diventa catalizzatore di cultura
solo nel caso in cui mantenga un forte carattere identitario.
Partendo da questi presupposti e considerando il fatto che
ci troviamo in Italia, sembra surreale constatare la smodata
diffusione, purtroppo non del tutto recente, dell'uso degli
acronimi per contrassegnare le istituzioni museali.
La passione per tali tipologie di sigle è di matrice
prettamente statunitense, dato che la scelta di denominare
MOMA il Museum of Modern Art rende il museo newyorkese uno
dei più illustri predecessori nell'applicare tale usanza.
Nel 1929 chiamare un museo di tale spessore con un nome buffo
da simil-giocattolo sarà forse apparsa come una buona
strategia per accostarsi a larghi strati di popolazione, rendendo
meno ufficiale e più amichevole un istituto che alle
sue origini era sinonimo di elitarismo.
Il sapore di novità di quella che è passata
alla storia come un'idea azzeccata si è tradotto in
una ripetizione insulsa e fuori luogo di monogrammi reiterati
e sempre meno accattivanti. Dico insulsa e fuori luogo perché
è improbabile pensare che con la creatività
insita che ci portiamo dietro non abbiamo trovato un modo
migliore e più espressivo di quella che è la
nostra cultura per contrassegnare il museo, un veicolo da
sempre usato, anche se con accezioni diverse, per trasmettere
conoscenza e stimolare riflessioni, quelle che ci sono mancate
nel momento in cui abbiamo ereditato in modo anemico e malsano
tutta quella che è un'impostazione mentale volta all'abbreviazione
e al profitto.
Così l'acronimo, da sempre usato tenendo conto dell'implicito
aumento simbolico apportato dalla riduzione di una serie di
parole in una sequenza di lettere che, proprio perché
in minor quantità risultano più cariche di significato,
si è piegato alla funzione di specchietto per le allodole.
Diverse sigle furono usate nelle epoche passate, basti pensare
all'S.P.Q.R. dei romani o agli acronimi usati dai cristiani
nei luoghi di culto: da sempre la riduzione di un concetto
complesso in poche lettere stava a significare la forza del
senso che esse trasponevano. Oggi la modalità contratta
di esposizione si annida ovunque, è una strada fin
troppo calpestata, tanto da perdere il bagaglio di senso che
aveva in origine.
Internet sopra tutti ha diffuso le abbreviazioni dato l'incremento
che apportano alla velocità della selezione, usando
le tags che al passaggio del mouse sulla parola ne traducono
il senso letterale.
Le persone sono tanto assuefatte dagli spot da non interessarsi
più a scoprire il significato che portano in sé,
non c'è distinzione tra lo slogan inventato per un
profumo, il nome di un locale notturno e quello di un museo.
Ecco quindi che tutto rientra nello sbiadito circolo dell'ovvietà,
di quello che ci si aspetta da ciò che si considera
stabilito come ACCATTIVANTE. La massima parte dei musei nati
negli ultimi decenni ha uno stendardo che si dispiega in poche
lettere, le quali però non veicolano più il
significato “altro”; le varie strategie rendono
i musei portatori sani dell'innovazione tanto da tradurre
il loro operato mediante scelte mai troppo azzardate, non
hanno uno spirito innovativo che possa contraddistinguerli
dal predecessore o da quello che nascerà. Lo sfruttamento
di uno stesso tipo di input, da tempo ha fatto si che venisse
canonizzato e quindi reso mano a mano più flebile all'attenzione
di tutti.
Qualunque società/azienda oggi ha una sigla, e i musei
vengono assimilati al resto anche nel nome; ora la domanda
è: perché se persino nella prima presentazione
che si fa di un museo si punta sul meccanismo di merchandising
successivamente sopraggiunge lo stupore di vedere l'istituzione
suddetta che si comporta come un'azienda?
La passionalità e l'improvvisazione mancano, in queste
dimore dell'assenza in cui sempre più pressanti sono
le ingerenze di ciò che nulla ha a che vedere con la
creatività anche di un solo momento. I depositi pieni
di opere che servono a barattarne altre sono un fondo, l'equivalente
edulcorato ed esteticamente più gradevole di un caveau
o della cella frigorifera di una macelleria.
Di conseguenza quindi anche i vari nomi vengono ripetuti in
una sorta di folle name-dripping con la stessa frequenza
dei suoni onomatopeici nei fumetti (dai quali sono in effetti
non dissimili).
Considerando lo snocciolare tali nomi non spiritualmente affine
ad una performance, magari di tipo post-futurista al quadrato,
ma soltanto la prevedibile conseguenza della strategia partorita
da un'economia sonnecchiante che si adagia su modelli consolidati
e usurati, vengo assalita da una sorta di noia.
Proprio la noia dovrebbe essere lontana dalle sensazioni associabili
all'arte dato che, come scrive Frédéric Beigbeder,
“…c'è sempre una novità più
nuova che fa invecchiare la precedente”.
Cecilia Caliari |
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