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EFFETTO ARTE,
Sollecitazioni atte a inibire le pretese imposte dall’identificazione
di Stefano Elena
pubblicato il 4/02/2009 |
Su come l’ossessione
comporti la depravazione degli intenti, manipoli il concreto
ruolo del tangibile per convincerlo a chinarsi alle sue stesse
intenzioni estetiche. |
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Le gravose rivendicazioni
– ben più onestamente solenni delle ripercussioni
– di una convivenza a tempo indeterminato con l’arte
visiva sanno sortire con l’andar dei giorni esiti deraglianti
che nel disordine e scompiglio devono al quadro la messa a
soqquadro dell’intendere le forme e la genesi scorretta
di un vedere corrotto.
Come sono comprovate le sindromi dei bambini matrix
o degli hardcore players (sostanze virali che infettano
la percezione e abitabilità di tempo e mondo di coloro
che fanno della vorticosa attività videoludica esigenza
maestra del proprio interpretare l’esistenza), così
sarebbe benefico provvedere all’individuazione a fini
diagnostici delle deviazioni d’eccezione cagionate dalla
frequentazione prolungata dell’arte. |
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La protratta immedesimazione interattiva
nelle sempre più veristiche dimensioni videogiocabili
in soggettiva induce all’esportazione nel fuori
vero di quegli stessi istinti tattici che nel (non più)
gioco ne permettono il progresso (mai verrà meno il
ricordo di quando, assuefatto da ore e ore d’azione
seduta alla malia di Silent Hill, cominciai genuinamente ad
importunare qualsiasi verde pianta esterna incontrasse il
mio cammino, certo degli effetti giovevoli che la sua conquista
avrebbe apportato al mio stato di salute).
Ciò che usiamo o dovremmo usare per diletto, quello
che volenti o dolenti rendiamo capace di insediarsi ininterrotto
nella continuità operativa della nostra cagionevole
indole vizioso-interessata, può diventare impertinente
neologismo relazionale, strumento di dialogo comportamentale
attraverso il quale afferrare la rivisitata identità
delle circostanti circostanze.
La mania, senza dubbi, altera l’effettivo stato di cose
e fatti reali, compromettendone la legittimità e dirottandone
l’autenticità verso quel danneggiato parere che
ammette&accetta esclusivamente quanto consentito dall’immanenza
del nuovo verbo eletto.
Scritto altrimenti: l’ossessione comporta la depravazione
degli intenti, manipola il concreto ruolo del tangibile per
convincerlo a chinarsi alle sue stesse intenzioni estetiche.
Se trasferiamo questo assunto dalla console all’arte
possiamo agevolmente giustificare il tormento lecito sofferto
da chi si trova a subire i consuntivi ottici di stagioni intere
impegnate a scrutare opere.
Se decidiamo di giudicare l’arte uno stupefacente vizio
intenzionale verremo spronati all’accettazione incondizionata
di tutti quei contraccolpi che il capriccioso vezzo porta
con sé. Potrà quindi accadere l’obbligante
rimbalzo interpretativo dell’universo estetico intero,
rimbalzo che assimilerà ogni fatto visivo
pervenuto riferendolo alle pratiche sillogistiche vigenti
nella zona fittizia della mania. Quanto verrà visto
nel mondo vero subirà le circostanze deduttive e utilitarie
residenti nella virtuosa terra virtuale consumabile a mezzo
schermo. Il fraintendimento rende plausibile la diversione,
sottopone le attinenze delle cose reali alle filtrazioni evolutive
della partita.
Determinato dalle allucinazioni volute dall’esposizione
insistita a opere d’arte, il valore dei contorni muta
la propria vividezza rendendola inconsapevole rivale della
taratura ottica che la familiarità instaurata con il
mezzo ha generato.
Il riconoscimento del vero è quindi subordinato alle
misure imparate in sede di alterazione visiva e i pareri vengono
espressi come se interfacciati alle norme decisive della dimensione
altra. La comparazione s’insinua spontanea e cellulare
nelle modalità operative delle nostre coscienze percettive,
obbligando le scelte e il gusto a confarsi alle gradazioni
tipologiche che definiscono i parametri giudiziali in vigore
nella rappresentazione.
Il bello diventa così quanto capace di sostenere l’antagonismo
delle forme ricorrenti del guardare “privato”,
aggravando di intrighi i nostri voleri che ora osano reclamare
pretenziose qualità compositive.
L’attrazione avviene per trazione: l’ammissione
di idoneità succede nell’esclusivo rispetto dei
canoni vaganti decisi nelle tubature introitanti del cervello.
Consumare arte assegna essenziali modelli alla discriminazione,
alla cernita che depura il superfluo reiterato asportandone
gli esuberi seccanti.
Si arriva a credere che la bellezza del bello possa apparirci
solo se rispondente ai decreti ostentati dalla poiesi artistica.
Si arriva ad esigere la compiutezza degente del ricovero contraffatto
fornito dalla dipendenza da artificio. L’inganno stanziale
figliato dagli alloggi inventivi s’infila nelle macchinazioni
che secernono l’aspettativa.
Ideali e sogni adulterati travisano le ambizioni quanto il
perfezionismo espressivo molesta le mire.
Pervertiti dalla persuasione delle sostanze (o pus) rese visibili
e bazzicate per scelta, ci si ritrova a distorcere il vigore
del fermento e lo spirito del necessario.
La plausibilità si fa sfrenata, drastica, estremista.
Per volere bisogna volare, sollevarsi dall’orizzontalità
terrena per adescare l’impossibile verticalità
dell’optimum.
Il desiderio non può disubbidire all’idea del
desiderio: l’ipotetica perfezione consegnata dall’arte
si aggira ansimante nei meandri del fuori vero, rovistando
avida tra le proposte offerte alla ricerca dell’esemplare
assoluto.
E quando lo trova, se inspiegabilmente riuscisse nel suo intento,
l’ipotetica perfezione esaspera la conquista ai limiti
della morbosità e poi della malattia.
Se esistesse una morale, oltre quella che gradirebbe suggerire
sostegni terapeutici per chi portatore di intemperanze estetiche,
potrebbe darsi che tenterebbe di tenerci lontani dalle indiscrezioni
provocate dal continuo uso di “costumi” paralleli
a quelli valevoli nel pratico e adoperabile mondo consentito.
Potrebbe darsi che proverebbe a distoglierci dagli effetti
autoritari dell’arte per invitarci a preferire le salutari
conseguenze di un’idiosincrasia per la stessa.
Potrebbe darsi che si cimenterebbe nell’impresa di sistemare
la raffinata presuntuosità dell’arte dove nessuno
possa ritenerla credibile né perseguibile.
Se invece non esiste, una morale, allora il disgraziato desiderio
continuerà a chiedere maledettamente troppo…
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