Ho scoperto che l’arte non esiste.
O forse me ne sono solo accorto in ritardo.
Non che non esista perché indefinibile in quanto entità
fine a se stessa, ossia l’arte non esiste, esistono
“solo” le opere e gli artisti.
Ho scoperto, o mi sono accorto troppo tardi, che l’arte
non esiste perché se esistesse avrebbe il dovere di
applicarsi anche ai sentimenti, sarebbe tenuta a rivolgere
quantomeno parte delle sue attenzioni alla gestione delle
imprevedibilità emozionali che ci tocca provare e patire
nel corso del vivere.
Quanto davvero ci riguarda e coinvolge, la sua costante inclinazione
alla trattazione delle sciagure che feriscono il mondo anonimo,
generico e autoportante? Quanta apprensione continuiamo a
riservare, una volta lasciate le belle sale bianche appena
ristuccate perché i buchi rimasti dai dolori a parete
precedenti non si vedano più, agli svolgimenti in vendita
che come il pensierino elementare del lunedì ci ricordano,
ancora e ancora, che là fuori c’è tanto
che non va? L’immedesimazione riscontrabile da fratello
uomo nei confronti delle discussioni impegnate dell’arte
è strettamente proporzionale all’onere economico
che si assegna (voce del verbo assegnare, cioè compilare
assegni) alle società umanitarie e ai questuanti.
Può senza dubbio sortire un effetto liberatorio, dirigere
ansia e trepidazione verso gli infortuni che danneggiano l’umanità
tra la quale si aggireranno e nella quale inopportunamente
si immischieranno i nostri figli, dopo che lo avremo fatto
noi, ma a conti fatti, proprio a guardarci nelle retine o
al solito specchio, quanto ci preoccupa la cosa?
Il dopo mostra viene forse intaccato?
L’inappetenza ci costringe a un digiuno istintuale?
L’amarezza per lo struggimento provato a un immediato
rincasare che ci tenga lontani da vizi e godimenti?
Il cruccio straziante a prove di solidarietà sensate,
quelle che ci tocchino almeno la pelle, per intenderci?
Se la risposta ad almeno tre di queste eventualità,
e tre su cinque equivale veramente a raschiare il fondo del
limite illusorio del nostro buon cuore, se anche a tre soltanto
si accende la lucetta “NO”, allora l’arte,
l’intrattenimento, è servito, ma non parliamo
di utilità, di sensibilizzazione, di attitudini didattiche
e informative, di implicazione. Non parliamo di partecipazione,
che sarebbe l’esatto e poco figurato avverarsi della
presa per il culo…
Ferlinghetti è stato chiaro: “Il mondo è
un gran bel posto per nascerci, se non date importanza alla
gente che muore continuamente o è soltanto affamata
per un po’ che in fondo poi fa male la metà se
non si tratta di voi…”.
Procedendo per esclusione quindi, una volta corredata di onorevole
schiettezza la presunta obbligatorietà che conduce
e induce alla munifica intenzione di andar per mostre con
un po’ di magnanimità nel cuore incline alla
spartizione di averi e pareri, ora cioè che l’ammissione
non tanto di colpa, ma di obiettività, può favorire
la trasparenza e spianare la strada preferenziale che porta
all’autenticità, dovrebbe riuscire più
accessibile il tentativo di individuare quali luoghi possa
l’arte frequentare per rendersi realisticamente capace
di farci Sentire e Provare qualcosa di nostro, qualcosa che
possa affliggerci davvero perché, almeno apparentemente,
non condivisibile. Qualcosa più di niente, per dirla
coi CCCP.
Se torniamo allora alle bizzarrie dei sensi, alle stranezze
della coscienza sensibile, alla stravaganza rovinosa della
passione, ci capita magari di ricordare che almeno una volta,
dall’alto o dal basso del nostro procedere cronologico
verso il domani, almeno una volta un incidente emotivo ha
turbato le nostre rassicuranti certezze relazionali, squilibrando
un assetto creduto inespugnabile e facendoci deragliare rumorosamente
addosso al supplizio dell’incertezza.
Al cospetto di cotanta dannosa straordinarietà (dannosa
perché complica, straordinaria perché solo lo
straordinario rinfocola, riaccende e richiama in vita non
solo i coinvolti nel/dal fatto, ma superbe e scordate voci
quali, in ordine sparso: MERAVIGLIA, LUCE, VITA, OCCHI, VOGLIA,
SGUARDO, CAREZZA, IMMAGINE, SOGNO, IMPOSSIBILE, IRREALE…
e tocca fermarsi, che sennò poi non potete divertirvi
ad aggiungere quelle che mancano), ci si precipita a interpellare
quei frangenti espressivi, diversi per ognuno di noi, affondando
nei quali ci auguriamo di scovare una qualche solidale e partecipe
verità, una spalla segreta sulla quale versare lacrime,
un antro solo nostro in cui restare un po’ da soli.
E tra queste inesauribili e probabilmente infruttuose sedi
di cordoglio, costrette a subire le nostre perplesse atrocità,
a chi è mai capitato di annoverare l’arte? Come
negare che un Werther o un Brian Eno o le nostre foto da piccini
siano state le più battute e sfruttate vittime sulle
quali riversare i nefasti esiti fasti di un indesiderato stato
d’animo?
Perché non c’è opera d’arte - quadro,scultura,
fotografia, installazione, video che sia - competente in merito,
abile nel fornire sussidio?
Dov’è, qual è l’opera d’arte
che, senza pippe mentali né rimandi balordi, sappia
offrirci soccorso, aldilà delle parziali confutazioni
che tirano in ballo il limite e l’alibi dell’impossibilità
di godere di una fruizione tangibile dell’opera d’arte,
visto che consultare un quadro richiede un moto a luogo?
Nan Goldin (foto di vita e amore reale), Felix Gonzalez-Torres
(installazioni/cumuli di caramelle il cui peso è quello
del corpo del compagno al momento della morte per aids), Marina
Abramovic e il suo artistic boyfriend Ulay (performances varie,
su tutte “The Great Walk Walk”: i due percorrono
2000 km lungo la grande muraglia cinese, partendo da due punti
opposti – ricorrente, il due – per ritrovarsi
a metà percorso), Sophie Calle (all’ultima biennale
di Venezia ha proposto una pletora di riletture/interpretazioni
stilistiche – video, poesia, danza, reading, trascrizioni
ed esercizi di stile vari molto Queneau – della mail
con cui il compagno la liquidava): alcuni nomi che la mia
infeconda memoria a breve tutto mi permette di rievocare e
revocare,disdire,data l’effettiva inconsistenza sussidiaria.
Sentite piuttosto Vicente Aleixandre: “Lascia, lascia
che ti guardi, macchiato dall’amore, arrossato il volto
dalla tua vita purpurea, lascia che guardi l’ultimo
clamore delle tue viscere dove muoio e rinunzio a vivere per
sempre”.
Ahhhhhh, che inquieto ritrovarsi... Come non intendere il
proprio nostro e vostro cuore declamare “GRAZIE, VICENTE!”?
E’ il cuore chimico, quello che sempre agisce e reagisce
in via sperimentale agli avvenenti olezzi che attraggono per
trarre.
Come non lodare tale sanguigna confidenza in prognosi riservata,
quasi certamente più gravosa di quella che ci tocca
e ammanta?
Perché se c’è chi sta peggio, noi stiamo
meglio.
E’ il cuore egoista: guarisce per procura e compassione.
E’ il cuore retroverso, come certi uteri…
“Amici,
se ci tenete a sopravvivere
non vi raccomanderei
l’Amore”
(Harold Norse) |