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                  | In ItaliaAl Palazzo Ducale di Genova, dal 9 settembre 2021 al 20 febbraio 2022 grande mostra di Maurits Cornelis Escher.
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                  | All'esteroParigi, all’Espace Lafayette-Drouot "The World of Bansky”, su 1200 mq. esposte  un centinaio di opere del più famoso street artist del mondo. Fino al 31 dicembre 2021.
 |  | |  |  | La 
soggettività dell'obiettività di Vilma Torselli
 pubblicato 
il 03/08/2006
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  | "Non 
colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà 
l'analfabeta del futuro". (Walter Benjamin che cita Laszlo Moholy-Nagy) |  
  |  
  
  
  | La fotografia rappresenta oggi la forma di comunicazione più diffusa 
    e più efficace in una civiltà dell'immagine, 
    per usare una definizione abusata ma appropriata, che privilegia 
    la visione come forma di conoscenza.
 Dando per superata, in modo definitivo, senza rimpianti 
    e con buona pace di Walter Benjamin, l'idea di un'aura dell'immagine 
    legata alla sua unicità, anacronistica e riduttiva 
    in una società della cultura di massa in cui tutto 
    è alla portata di tutti, la fotografia ha minato 
    il concetto dell'esclusività del pezzo unico fruibile 
    da una elite ristretta e privilegiata ed ha invece affermato 
    quello di un oggetto, artistico o semplicemente comunicativo, 
    che, riprodotto indefinitamente in un numero illimitato 
    di esemplari, dà vita a pezzi tutti 'autentici' ed 
    in un certo senso 'unici'.
 
 Per la verità va detto che 
    Benjamin non lega alcun giudizio esplicitamente negativo ad un processo che, prima 
    che culturale, è di natura storica e sociale e non modifica sostanzialmente 
    il concetto di arte visiva intesa come scambio di comunicazioni mediante un linguaggio 
    segnico.
 Nel caso della fotografia ciò è accompagnato da un valore aggiunto rappresentato 
    dal fatto che l'illimitatezza quantitativa si lega ad un livello qualitativo immutato 
    dalla prima all'ultima copia, il che non avviene, per esempio, per la riproduzione 
    litografica o serigrafia, che comporta un progressivo scadimento del risultato.
 Questa 
      rivoluzione copernicana indotta dalla riproducibilità tecnica dell'immagine 
      si è legata ad una crisi del concetto di soggettività causata da 
      una supposta capacità della fotografia di riprodurre la realtà oggettiva 
      in quanto medium meccanico e come tale delegato al compito di copiare fedelmente 
      un modello nel modo più neutro possibile: non a caso, il termine 'obiettivo' (o l'equivalente 'obbiettivo')
      è aggettivo qualificativo con significato di " imparziale, oggettivo, basato 
      sui fatti ' - definizione tratta da 'De Mauro, dizionario della lingua italiana " - ed al tempo stesso sostantivo che identifica quella parte della macchina fotografica, 
      l'obiettivo, appunto, attraverso la quale il fotografo guarda e restituisce in 
      immagine ciò che osserva. |  
  | Tuttavia, 
    a partire da Cartier-Bresson e da tutta una generazione 
    di fotografi suoi contemporanei con i quali si sono consolidati 
    due fondamentali filoni espressivi, la documentazione - 
    di eventi o personaggi - e la rappresentazione, per immagini, 
    di situazioni e stati d'animo, il dibattito tra oggettività 
    e soggettività nella fotografia pare risolto e oggi 
    non sussistono dubbi sul fatto che l'autore inevitabilmente 
    eserciti personali e soggettive opzioni sulla scelta del 
    frammento di realtà che decide di fotografare, sulle 
    condizioni di luce, sul punto di vista e su una lunga serie 
    di situazioni variabili nelle quali trascrivere la propria 
    visione del mondo, lo stato d'animo, le intenzioni, la cultura, 
    il vissuto, insomma uno stile personale, soggettivizzando 
    inequivocabilmente il risultato finale. "Secondo Barthes, quando si dice che la fotografia è 
      un linguaggio si dice qualcosa di vero e falso al tempo stesso: falso in senso 
      letterale, poiché l'immagine fotografica è analogica rispetto a 
      ciò che rappresenta, e dunque non comporta nessuna unità elementare 
      discontinua che si possa chiamare segno; vero, nella misura in cui nella fotografia 
      sono soprattutto la composizione e lo stile a funzionare come un linguaggio. Lo 
      stile ci dice così di una specificità del segno fotografico che 
      non appartiene alla dimensione della denotazione, bensì a quella della 
      connotazione. In questo senso, lo stile come linguaggio proprio della fotografia 
      mette innanzi tutto in gioco la problematica della soggettività".(Patrizia 
      Calefato / scienze e tecnologie della moda /fotografia - Camera lucida: note sulla 
      fotografia). Al pari di ogni altra forma di scrittura, la fotografia è 
      quindi un linguaggio con spiccate diversità grafologiche legate alla presenza 
      di un autore, del suo intelletto e della sua personale emotività che invoca 
      il diritto alla soggettività, mezzo per articolare un discorso per immagini 
      fatto di rimandi, metafore, allusioni nel quale, come asserisce Wim Wenders, "c'è 
        la presenza di chi viene fotografato e di chi sceglie l'inquadratura e scatta". |  
  | ************************* |  
  | Il commento di seguito riportato, a firma di Miro Dragan, correda il mio scritto di una serie di informazioni e precisazioni (reperibili anche in Wikiquote) senz'altro utili ad una   più completa documentazione per il lettore, anche se ininfluenti alla comprensione del mio testo. Che parte dalle considerazioni sulla riproducibilità dell'immagine formulate da Benjamin, il quale avrà avuto i suoi buoni motivi per 'appropriarsi' di una frase altrui manifestatamente dichiarando di condividerla facendola propria, tanto che  la scrive "senza riportare il nome di Moholy-Nagy". Alla luce di ciò, mi permetto di contestare il fatto che la citazione  si possa definire 'errata', in quanto riportata effettivamente da Benjamin, seppure in seconda battuta.
 E' Benjamin che fà sue le parole di Laszlo Moholy-Nagy, ed io riferisco parole di Benjamin che a sua volta riferisce parole di Moholy-Nagy. La funzione introduttiva della frase, che risulta in un certo senso doppiamente autorevole, non cambia chiunque l'abbia pronunciata, nè cambia la sua pertinenza all'argomento.
 Tant'è che lo stesso Benjamin, come rileva Dragan, non giudica necessario citarne Moholy-Nagy quale autore, evidentemente ritenendo che essa valga per entrambi come espressione di un concetto condiviso e che non ci sia copyright sulle parole con il quale viene espresso.
 |  | Scrive Miro Dragan:
 "L'aforisma attribuito a Walter Benjamin a margine dell'articolo "La soggettività nell'obiettività" a cura di Vilma Torselli è erroneo."
 Nel 1931 Walter Benjamin pubblica nella rivista berlinese Die literarische Welt un saggio dal titolo Piccola storia della fotografia che si conclude riportando e commentando una frase del pittore e fotografo ungherese, attivo a Berlino, Laszlo Moholy-Nagy: “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro”
 L’artista proclama l’avvento della società della visione e dei suoi nuovi linguaggi; Benjamin commenta causticamente: “Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta?” riportando l’indice dell’attenzione sulla capacità di comprendere i contenuti.
 
 Tutto questo è contenuto nell’edizione italiana (Einaudi ed. 1966/ 91/ 2000), W. Benjamim, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dove Benjamin, senza riportare il nome di Moholy-Nagy, scrive:
 “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia -è stato detto- sarà l’analfabeta del futuro” ed aggiunge:”Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta? La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine?”
 Segue.....
 
 Miro Dragan
 Contatti: mirodragan@libero.it
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