La grande quantità di oggetti della
modernità costituisce un nuovo, rivoluzionario e
coerente sistema di segni che esprime l’ideologia
di una società dei consumi nella quale gli oggetti
sono i veri protagonisti, così ci dice Jean Baudrillard (“Il
sistema degli oggetti”, 2003).
Specchio di un sistema socio-ideologico-culturale che li
progetta, li crea, li utilizza e li getta, essi rappresentano
l’unica realtà neutra e genuina che la fotografia
può fissare: gli oggetti non si mettono in posa,
“Tutti sorridono di fronte alla fotografia ma
l'oggetto rifugge da questa logica e non sorride. è
per questo che io adoro gli oggetti” - così
dichiara Baudrillard - “ … per trovare la
reale qualità dell'immagine, secondo me, bisogna
cercarla soltanto nell'oggetto. È nell'oggetto che
sono riuscito a trovare la singolarità, nella scena
dell'oggetto e purtroppo non sono riuscito a trovarla a
livello di visi, di rappresentazioni umane, di paesaggi,
di storia …. “
La fotografia detiene quindi il potere di recuperare il
rapporto con la realtà oggettuale attraverso la sua
rappresentazione, in assenza di ogni trasfigurazione estetica,
e proprio nella sua capacità di restituire alle cose
la loro oggettività, la fotografia rimedia alla “sparizione
del reale” perpetrata dall’avvento della
realtà virtuale che ci circonda e che sostituisce
all’oggetto la sua rappresentazione meta-oggettuale.
In questi termini, la fotografia restituisce ogni cosa alla
sua verità nuda, operazione tanto più pulita
quanto più ciò che viene fotografato è
neutro, sottratto a quella trasfigurazione estetica o simbolica
che Baudrillard definisce come vera e propria violenza fatta
all’immagine.
In generale fotografare comporta sempre una tensione, una
sorta di lotta tra il fotografo, che aspira, anche inconsciamente,
ad imporre una sua visione dell’ordine e del bello,
e il soggetto fotografato, chiunque esso sia: lo sa bene
chi, come Gianmarco
Chieregato, ha una lunga esperienza del ritratto e quindi
delle implicazioni anche conflittuali che sottendono a questa
forma di rappresentazione, nella quale si instaura inevitabilmente
tra le due parti un dialogo in tempo reale: “Il
ritratto è un lavoro che ti gratifica o ti stronca
subito”, dice Chieregato, per definire una interazione
emotiva a caldo che influisce anche sulla qualità
del prodotto finale, conteso nel duplice scopo di “soddisfare
sia le aspettative e la vanità del soggetto fotografato
che quelle del fotografo creatore di immagini.”
Le posizioni si modificano nella fotografia di oggetti inanimati,
“Non è l'oggetto a doversi mettere in posa,
è l'operatore che deve trattenere il fiato, per fare
il vuoto nel tempo e nel corpo”- scrive ancora
Baudrillard, la fotografia- “sottrae (l’oggetto)
al contesto ingombrante e assordante del mondo reale. Quali
che siano il frastuono e la violenza che lo circondano,
la fotografia restituisce l'oggetto all'immobilità
e al silenzio”.
Togliendo ad un oggetto “tutte le sue dimensioni:
il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il
tempo, la continuità, e ovviamente il senso”
senza pretendere di simulare il tempo ed il moto (ciò
che fanno invece il cinema o la televisione), attenendosi
al più rigoroso irrealismo, la fotografia diviene
così “medium dell' oggettualità
pura”.
Quindi, pur accettando scontatamente che ogni opera visiva
rimandi a un campo semantico complesso al di fuori dell’opera
stessa, l’oggetto fotografato dovrebbe invece essere
considerato per se stesso, privo di ogni rimando simbolico
e di ogni filtro interpretativo dovuto all’emozione
ed all’esperienza del fotografo.
Si potrebbe discutere su questa possibilità, se è
vero che sempre, quando si compie una decontestualizzazione,
si insinua inevitabilmente una elaborazione emotiva ed una
interpretazione soggettiva dell’immagine. Tanto più
oggi, nell’epoca del digitale, in cui il virtuale
ha ucciso il reale in quello che sempre Baudrillard definisce
un ‘delitto perfetto’: cosicché, paradossalmente,
l’oggetto, proprio perché non può far
altro che tacere e lasciarsi fotografare, rappresenta anche
il caso in cui le manipolazioni del fotografo possono avvenire
più liberamente e pesantemente, fino a stravolgere
il concetto stesso di fotografia. La foto digitale, scrive
infatti Mario Costa, è "non un'immagine
ma un oggetto digitale, che è tutta un'altra cosa
rispetto all'oggetto fotografia e che con esso non ha più
assolutamente nulla a che fare" (Mario Costa,
"La disumanizzazione tecnologica", 2007)
Quando Barthes scriveva “... Spesso è stato
detto che sono i pittori ad avere inventato la fotografia
... Io dico di no: sono stati i chimici ...."
forse non immaginava quanto fossero precognitive le sue
parole: oggi potremmo dire che sono stati i programmatori
!
E non è un caso che i grandi fotografi si rivelino
nei momenti di grande sviluppo tecnologico.
Dopo le stagioni eroiche del Dadaismo, del New Dada e della
Pop Art, in cui l'oggetto messo in posa, analizzato nelle
sue caratteristiche formali, nella sua essenza geometrica,
nelle le sue peculiari attribuzioni di volume, forma, tonalità,
è stato preso a testimone muto dei valori del mondo
sensibile, con ruolo proiettivo delle caratteristiche psichiche
dell'artista e di codificazione simbolica del messaggio
dell’opera, oggi soggetto ed oggetto, “in
via di principio elementi interattivi", si confrontano
in un rapporto asimmetrico: grazie all’incalzante
sviluppo delle tecnologie, le possibilità offerte
dal digitale superano la fantasia e la capacità immaginifica
di qualunque osservatore lasciando sempre meno spazio all’interpretazione
e sempre più alla fruizione passiva.
Destinato ad una nuova stagione di protagonismo, truccato
ed abbigliato come una star, elaborato dal mouse di abili
professionisti dell'immagine, l'oggetto è oggi più
che mai il ritratto di sé stesso.
E mentre immagini ipertrofiche inducono all’atrofia
dell’immaginazione, vengono in mente le parole di
Mario Costa: “La fotografia è la prima
macchina che sogna", sostituto meccanico della
nostra fantasia, alter ego di un'umanità sempre meno
capace di sognare.----- |