Sempre e comunque, nel nome
di una supposta neutralità etica della tecnologia
che per sua stessa natura non si pone censure o problemi
morali ed offre un facile alibi ad una società che
ha sostituito al senso del limite il senso del possibile.
Nell’epoca dell’imperialismo tecnologico, il
continuo superamento del limite finisce così per
divenire lo scopo dell’agire, una sfida sempre in
atto destinata a non concludersi mai, dimenticando che la
tecnologia non ha un valore intrinseco, non ha un senso
proprio, ma acquista significato solo se/quando usata dall’uomo.
L’arte visiva, l’architettura, la fotografia,
tutte le discipline che sono maggiormente debitrici al progresso
tecnologico, più direttamente interessate da elementi
manipolabili dall’uomo attraverso la tecnica, rischiano
così di perdere in libertà espressiva ciò
che guadagnano in facilità esecutiva.
E’ questa l’analisi che Vilém Flusser
compie in un suo libro, “Per una filosofia della
fotografia”, tentando un ripensamento del nuovo
rapporto tra immagine e fotografo, in cui si frappone come
indispensabile mediatore l’apparecchio fotografico,
con sue precise e limitate caratteristiche tecniche alle
quali il fotografo si deve adattare operando le sue scelte
entro una circoscritta offerta.
Cosicché non è tanto il fotografo ad usare
la macchina quanto la macchina ad usare il fotografo per
costruire l’immagine secondo i propri parametri interni,
determinando il risultato secondo il proprio programma.
Nell’esile confine tra un progressivo asservimento
alla macchina e la possibilità di dominarla, tra
una autolimitazione nell’utilizzo della tecnologia
ed un ricorso indiscriminato agli ausilii della tecnica
c’è uno spazio neutro in continua mutazione
nel quale nascono (e muoiono) fenomeni di difficile valutazione.
Ho recentemente appreso la notizia dell’esistenza
di un carismatico personaggio, tale Pascal Dangin, quarantenne
nato in Corsica, ex parrucchiere ora residente a New York,
che di mestiere, ed ai massimi livelli, fa il ritoccatore
fotografico digitale, inedita occupazione che ha portato
alla ribalta figure professionali superspecializzate, fino
a poco tempo fa marginali, oggi veri deus ex machina di
tanti successi mediatici. Almeno se, come dichiara Dangin,
Patrick Demarchelier, Steven Meisel, Craig McDean, praticamente
il gotha della fotografia mondiale, cercano le sue prestazioni
e le pagano profumatamente. Pare che anche Annie Leibovitz
abbia utilizzato la sua abilità nell’uso del
computer per conferire alle sue casalinghe-modelle della
pubblicità “Dove
pro age” la giusta aria dimessa e normale sulla
quale è impostata tutta la campagna.
“Sono stato fra i primi a convertirmi al digitale
e non mi va di fare quello che grida allo scandalo, tanto
più che l' obiettivo non è mai stato obiettivo.
Però dietro i ritocchi c' è una sorta di omologazione
per cui i visi e i corpi della moda e della pubblicità
sembrano sempre gli stessi. Banali”, così
afferma Oliviero Toscani (Corriere della Sera, 2 giugno
2008), sottolineando un diffuso concetto condiviso, almeno
a parole, dalla totalità dei più autorevoli
addetti ai lavori.
Come Gianmarco
Chieregato, ( "In realtà col computer
…….. i corpi delle donne sembrano tutti uguali
…….” Panorama, ottobre 2004) ) che
identifica nei visi e nei corpi della moda e della pubblicità
l’immagine più inflazionata del mondo della
comunicazione visiva.
"L'arte, e su questo non ci sono dubbi, consiste
nel perfezionare la forma. Voi però, ed ecco l'altro
vostro errore madornale, siete convinti che l'arte consista
solo nel creare opere formalmente perfette …..
“, scrive Witold Gombrowicz nel suo "Ferdydurke",
divertente allegoria dell'infantilismo moderno ed intuizione
straordinariamente anticipatrice di ciò che la società
attuale si aspetta dal mondo delle immagini: la prigione
delle forme in un aspetto irreale oltre ogni limite, quand’anche
totalmente artificiale, è metafora della costrizione
dell’uomo moderno in un ruolo che ha perso ogni carattere
di umanità, che ha scelto la conoscenza mediata dalla
macchina e da abili manovratori che ci fanno intravedere
il mondo come forse vorremmo che fosse.
Ma l'euforia tecnologica, tanto più dilagante quanto
più supportata dal processo di globalizzazione, è
compatibile con i vitali spazi di libertà dell’essere
umano?
“I fotografi sono già uomini del futuro,
i loro gesti sono programmati dai loro apparecchi, si occupano
del “terziario”, si interessano alle informazioni
e creano cose (le foto) senza valore. Eppure, convinti che
la loro attività sia tutt’altro che assurda,
ritengono perciò di essere liberi………”
(Daniela di Dato, 2007)
Forse una riflessione seria “Per una filosofia della
fotografia” deve partire proprio da loro, dal loro
rapporto con quel prodigio di tecnologia che è la
macchina fotografica, per capire quali possano essere i
nuovi spazi di libertà da conquistare in un mondo
dominato sempre più dalle macchine.
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