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Atti innaturali, pratiche innominabili, note su Donald Barthelme
di Mauro Pascolat
pubblicato il 27/01/2007

Nel superamento e nel rifiuto della narrativa "tradizionale" - che di per sé non è cosa nuova, se pensiamo che i clichés del romanzo borghese sono stati ripetutamente messi in discussione e abbattuti nel corso del XX secolo, quantomeno dagli anni '20 in poi - il movimento letterario della "post-modern fiction" americana che attraversa gli anni '60 con grande fecondità e originalità di contributi (John Barth, Thomas Pynchon, Robert Coover, Walker Percy, William Gass), ha in Donald Barthelme (Philadelphia, 1931- Houston, 1989) una delle figure più significative.
Autore assai prolifico di racconti brevi, romanzi, narrativa per bambini, negli anni '50 Barthelme fu prima giornalista, in seguito direttore del "Contemporary Arts Museum" di Houston, mentre, parallelamente alla letteratura, coltivava un particolare interesse per le arti grafiche. Trasferitosi a New York, nel 1961 divenne direttore editoriale di "Location", rivista che si occupava dei rapporti fra arti visive e scrittura. Ciò gli diede l'opportunità di sviluppare e condensare i suoi molteplici interessi, grazie ai contatti con gli artisti della cosiddetta "New York School", un gruppo di pittori (per lo più espressionisti-astrattisti) e scrittori-poeti del tutto estranei alla tradizione contemporanea nella poesia in lingua inglese.

Sono evidenti le corrispondenze fra arte visiva e scrittura: la lingua è un oggetto contenuto in un quadro descrittivo, una rinuncia alla conoscenza nella misura in cui (su imprescindibile legazione di Wittgenstein) la nominazione è unicamente un surrogato dell'oggetto nominato, non vi è messaggio se non quello che indica la realtà senza la sua ri-rappresentazione da un punto di vista onnisciente. L'arte stessa, dunque, è l'oggetto - come indica a sua volta la pop-art.

Nelle short stories di Barthelme la forma determina il contenuto: la "narrazione" è la tela di un quadro pop, gli elementi che ne costituiscono la morfologia surreale sono improntati ad un ludicismo che - desemantizzando la parola, rinviata ad una polisemia cui fa da contrappunto l'elemento grafico, e dando così luogo a uno straniamento a duplice livello dove l'immagine può essere tanto didascalica quanto una contraddizione del racconto con intento parodistico, ridicolizzante - richiede la partecipazione del lettore nello stesso modo in cui esso sarebbe coinvolto in un gioco o in una pratica sportiva.
Il lettore deve essere intrattenuto da una narrazione che decostruisce e riassembla un linguaggio fatto di oggetti, non di eventi, di antistereotipi e distorsioni che costringono a riconsiderare le relazioni che siamo abituati a cogliere fra questi elementi e il loro ambiente.
Sono gli anni warholiani dell'immagine di Marilyn Monroe consegnata ad una parossistica pala iconografica, dell'oggetto d'uso comune che diventa opera d'arte e come tale percepito e fruito dal pubblico che usa quotidianamente la paglietta "Brillo" o lo scatolame della "Campbell": una sottolineatura, in fondo, del noto teorema benjaminiano sull'impossibilità di una creazione artistica originale con l'avvento di tecnologie che offrono la possibilità di una riproduzione ad infinitum dell'oggetto di "godimento estetico" (nelle sue innumerevoli implicazioni), in tal modo sottratto al senso della propria unicità.
Nell'ironico titolo di una raccolta di racconti di Barthelme, "Unnatural Acts, Unspeakable Practices", nulla ci impedisce di leggere anche una summa della temperie culturale che caratterizza l'estetica della pop-art a fronte del ribaltamento in chiave paradossale della lettura delle arti visive in particolare data da Walter Benjamin.

Ecco dunque l'"atto innaturale" di Barthelme, il travaso in un oggetto (il libro) degli infiniti oggetti che costituiscono il linguaggio, o meglio, l'assunzione di un oggetto a motivo narrativo, il che implica una serie di domande che Barthelme pone a se stesso confrontandosi con le aspettative del lettore: come vogliamo giocare con questi oggetti nell'ambiente in cui viviamo? Qual è l'esperienza estetica che questo tipo di approccio suscita in noi? Che cosa pensiamo di una società che fa di una minestra in scatola un'opera d'arte? Uno sforzo automaieutico, per così dire, prima che un vano interrogativo rivolto al pubblico. Tale attitudine - inutile dirlo - rifugge da qualsiasi giudizio di valore "moralistico" (in termini artistici, ossia l'attesa da parte dell'autore di un riscontro del fruitore rispetto all'apologo richiesto dal suo atto di comunicazione). Guardando indietro nel tempo (o altrove nel mondo) troviamo Barthelme compagno di Sterne, di Kafka, di Borges, per esempio: nella rappresentazione (questa sì) di incertezze anziché di ipotesi, impegnato nell'assemblaggio di finzioni anziché nella tessitura di intrecci o la presentazione di resoconti, nella distruzione sotto specie parodistica di convenzioni narrative, nell'abolizione di linguaggi abusati.

I racconti di Donald Barthelme in genere non superano le dieci pagine, quasi sempre di tono giocoso (anche laddove l'autore svolge in modo più o meno mimetico riflessioni di carattere estetico-filosofico), si sviluppano spesso intorno a un oggetto o un fatto all'apparenza banali e comunque assolutamente straniati (una montagna di vetro che sorge improvvisamente a Manhattan, The Glass Mountain, una mongolfiera che fluttua nel cielo di New York, The Balloon, una cane che precipita da una finestra addosso al suo proprietario, The Falling Dog).
Altre volte Barthelme "reinventa", rilegge in un non-plot parodistico personaggi e/o eventi storici (Cortés and Montezuma, Robert Kennedy Saved from Drowning, Kierkegaard Unfair to Schlegel) o legati al mondo dell'arte (Conversations with Goethe, Paul Klee) "topoi" della tradizione letteraria (Eugenie Grandet, The Death of Edward Lear, Bluebeard), attitudini, luoghi comuni, figure della società americana.

I risultati sono sempre godibili ed esilaranti, l'ironia acquista sulla pagina (spesso concepita come una partitura cui partecipano parola, disegno che suggerisce e fuorvia, veri e propri segni di pausa, interruzioni, dissolvenze, black-outs temporanei, elenchi numerati) una sorta di fisicità, una sfida all'immaginazione del lettore a diventare spettatore di uno spettacolo comico, in un'incalzante giustapposizione di slapstick, cartoon, auto-interviste, a parte, impietosi (in quanto dubbi) ammiccamenti, richiami e citazioni che non transigono sul bagaglio di conoscenze del pubblico. Quando il sipario cala, non è detto che non debba improvvisamente essere rialzato. Ma alla fine Barthelme non ritornerà sul proscenio per concedere il bis, anche se egli ha fatto di tutto affinché noi lo richiedessimo a gran voce.

Su Donald Barthelme in rete:

Il sito più esauriente (in inglese) "Donald Barthelme's barthelmismo" racconti on line, bibliografia completa, note biografiche, foto, caricature, opere grafiche di D.B., saggi critici, links.
In italiano: (brevissimi estratti) da racconti e romanzi.
Le pubblicazioni in italiano sono nel complesso alquanto lacunose (anche a causa delle "fluttuazioni" dei titoli nei cataloghi delle diverse case editrici).
Segnaliamo "Il padre morto", (prima edizione) Torino, 1979; "Atti innaturali, pratiche innominabili", (prima edizione), Milano 1969; "Biancaneve", (prima edizione), Milano 1972.
Il racconto "Il re del jazz (The King of Jazz)" è pubblicato in 'Narratori di poche parole', antologia di racconti lampo americani, Parma 1990 (prima edizione).


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