| In architettura il dilemma è 
                    più sfumato che in arte, poiché, quand’anche 
                    arbitrariamente, si riconosce e si pretende un ruolo comunque 
                    estetico dell'agire artistico, forse per compensare il fatto 
                    di essere esso sostanzialmente inutile sul piano pratico, 
                    mentre si è più portati a considerare l’architettura 
                    come un necessario ‘mestiere’ da svolgere al meglio, 
                    dando per scontato che "Non esiste un'architettura 
                    bella, o una brutta, una commerciale piuttosto che d'autore. 
                    Esiste soltanto un'architettura in grado di dare delle risposte 
                    o di non darle", come dichiara Massimiliano Fuksas.In realtà, in una recente intervista televisiva sui 
                    progetti di sviluppo della Milano del 2008, lo stesso Fuksas, 
                    che a quanto pare predica bene e razzola male, definisce il 
                    suo progetto del nuovo polo fieristico di Pero ‘una 
                    bella architettura’, coinvolgendo nell’autocelebrazione 
                    il presidente della Giunta Regionale Roberto Formigoni e confermando 
                    così che la faccenda non è liquidabile in modo 
                    tanto stringato e perentorio neanche per chi, in precedenza, ne ha parlato in questi 
                    termini.
 
 Comunque, secondo questo parere peraltro condiviso da molti 
                    architetti contemporanei, si può definire una bella 
                    architettura quella che si assoggetta, come parametro di giudizio, 
                    alla capacità di dare delle risposte, presumibilmente 
                    alle domande poste dalle esigenze di utilizzo, con 
                    atteggiamento sostanzialmente funzionalista, anche indipendentemente 
                    dalla gradevolezza formale dei volumi, delle linee e degli 
                    spazi, attributo opinabile e non necessario.
 Tutto ciò nell’ottica di una revisione radicale 
                    dei parametri classici che per millenni hanno dominato il 
                    pensiero occidentale: infatti non dev’essere sempre 
                    stato così se l'architettura ha rappresentato in passato 
                    oltre che la cultura dei popoli e la loro visione del mondo, 
                    anche il loro concetto di bellezza, districandosi tra sezioni 
                    auree, serie di Fibonacci, canoni di Policleto, fino a giungere 
                    al modulor di Le Corbusier, ai rettangoli aurei di 
                    Mondrian, alla geometria frattalica ecc......
 
 Insomma, in passato l’architettura non si esimeva dal 
                    cercare di essere anche bella, anzi ce la metteva tutta per 
                    esserlo, senza sacrificare per questo gli scopi pratici per 
                    cui veniva realizzata.
 Il mondo greco ha elaborato una sua idea del bello architettonico 
                    strettamente connesso alla razionalità, l’architetto 
                    del Partenone aveva senz’altro ben presente a cosa servisse 
                    e come andava realizzato ciò che stava erigendo, ma 
                    mentre cercava di rispondere al meglio alle domande, 
                    non si esimeva dal cercare risposte che al tempo 
                    stesso rendessero il suo tempio il più ‘bello’ 
                    possibile, con una profusione di fregi, colori, metope, triglifi, 
                    accorgimenti prospettici, proporzioni auree e quant’altro.
 Con ciò, gli architetti del passato si dimostrano straordinari 
                    anticipatori della moderna neurobiologia, che riconosce al 
                    cervello umano la capacità di discriminare istantaneamente 
                    ciò che è bello da ciò che non lo è 
                    secondo un insito principio ‘oggettivo’ di bellezza 
                    basato su proporzioni e simmetrie (bilaterali e rotazionali), 
                    su dimostrazioni ed equazioni matematiche e geometriche, sulla divina proportione, la sectio divina 
                    di Keplero, in base ad una sorta di logica dell’armonia 
                    universale derivata da un insieme di regole o canoni rintracciabili 
                    in natura e non inventati dall’uomo, in grado di mettere 
                    tutti d’accordo nel definire qualcosa come ‘bello’.
 Persino Einstein, che individua lo scopo dell’indagine 
                    scientifica nella ricerca della bellezza insita nella “semplicità 
                    logica dell’ordine e dell’armonia” 
                    della natura, attribuisce la sua teoria della relatività 
                    ad una metafisica ricerca di bellezza, e con lui Roger Penrose, 
                    Stephen Hawking e tanti altri scienziati credono in una bellezza 
                    legata anche ad una dimostrazione matematica o ad una equazione 
                    .
 Bellezza, armonia, gradevolezza, equilibrio, in una percezione 
                    sinestetica che avvolge i sensi appagando la mente e il cuore, 
                    la nostra mente razionale e quella emotiva. Così concepiva Goethe l’architettura: "Potremmo 
                    pensare che l'architettura, come arte bella, parli soltanto 
                    ai nostri occhi.Invece, è al senso del movimento meccanico 
                    del corpo umano che dovrebbe, innanzitutto, rivolgersi [………] 
                    Quando balliamo, ci muoviamo seguendo regole ben precise, 
                    e ciò provoca in noi una sensazione piacevole.Una sensazione 
                    simile dovrebbe nascere anche in chi venga condotto bendato 
                    attraverso un edificio ben costruito" (Johann Wolfgang 
                    von Goethe, “Von deutscher Baukunst”).
 
 Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti!
 
 Tant’è che l’architettura moderna pare 
                    voler escludere intenzionalmente la ricerca anche incidentale 
                    del risultato estetico, almeno a parole, dichiarando a priori 
                    di non voler essere bella: lo dichiara Fuksas, lo fanno anche 
                    Libeskind, Koolhaas, Gehry, lo fa Renzo Piano, con la sua 
                    progettazione high tech in perenne equilibrio tra 
                    minimalismo e banalità.
 E nel nome di questa conclamata indifferenza per il risultato 
                    estetico, c’è il rischio che venga contrabbandata 
                    l’idea per niente ovvia che essa sia condizione sufficiente 
                    per fare un’architettura intelligente e significativa, 
                    a difesa di fallimenti progettuali anche clamorosi (penso 
                    al centro culturale Jean-MarieTjibaou in Melanesia, alla ristrutturazione 
                    del porto antico di Genova, a firma dell'architetto-tuttologo 
                    Renzo Piano) né belli né intelligenti.
 “L’architettura è un servizio: produce 
                    cose che servono alla gente……” dichiara 
                    Piano, perfettamente allineato sull’idea di un’architettura 
                    'necessaria', costellata di discorsi più o meno scontati 
                    sulla sostenibilità, l’ambientalismo ed il risparmio 
                    delle fonti energetiche, aggiungendo, in un’intervista 
                    al Corriere della sera del maggio 2007 : “…..fare 
                    architettura non è come scrivere un brutto libro che 
                    si può anche scegliere di non leggere. L'architettura, 
                    brutta o bella che sia, viene comunque imposta a tutti...”, 
                    già, anche a quelli ai quali non serve, quelli ai quali 
                    l’architetto dovrebbe sentire il dovere morale di imporre 
                    un’architettura che almeno sia ‘bella’ da 
                    vedersi ……..
 Per fare un esempio, perché chi non entrerà 
                    mai al Marques de Riscal deve subire comunque la vista di 
                    questa spettacolare follia del peggior Gehry? A proposito 
                    della quale, per inciso, leggo in rete che l’intento 
                    del progettista era quello “di legare questa straordinaria 
                    costruzione al paesaggio e alla tradizione vinicola. E' proprio 
                    in quest'ottica che si spiega infatti la scelta dei colori, 
                    soprattutto quella del rosato.” Un’architettura 
                    legata al colore del vino….. ci rendiamo conto?! Quello 
                    prodotto nella zona o quello bevuto dall’alticcio progettista?
 
 Insomma, se vogliamo dare delle risposte ai bisogni dell’essere 
                    umano, non è forse la bellezza stessa un peculiare 
                    bisogno?
 Perché tra le risposte che l’architettura è 
                    chiamata a dare non ci deve essere anche quella relativa ad 
                    una sua ‘bellezza’, genericamente intesa, vana, 
                    superflua, inutile come l’arte, ed altrettanto necessaria?
 Non dimentichiamo che l'Italia è stata fino ad oggi 
                    il più bel paese del mondo grazie a tutta questa inutile 
                    bellezza!  * articolo aggiornato il 8/8/2014 |